Cultura

L’alba della società civile

La lenta ricostruzione della "società di mezzo". Parola alle associazioni irachene

di Redazione

di Lucia Ritrovato

Credono nella rivoluzione dal basso e nella possibilità di poter finalmente assaporare i benefici di una democrazia. Credono, dopo il vuoto morale e psicologico imposto dalla dittatura, di avere il diritto di «mettere in moto le mani e le braccia che il passato aveva spento», come dice Abdullah Khalid Omar, presidente di Almesalla, ong per la difesa dei diritti nelle carceri di Erbil. Nell’Iraq del dopo Saddam Hussein, del dopo Bush e del semi annunciato ritiro delle truppe statunitensi entro il 2010, la società civile irachena ha cominciato a farsi sentire anche a livello internazionale. È folta e nutrita da centinaia di semplici cittadini divisi tra organizzazioni, sindacati, associazioni per i diritti umani, reti di donne e studenti, nati come risposta alle guerre subite.
Quarantacinque delegazioni di loro, le più importanti, sono giunte a Roma qualche giorno fa invitate dalla ong italiana Un Ponte per…, dando testimonianza di una realtà attiva che, non solo idealmente, unisce sciiti e sunniti e che vuole diventare portavoce del popolo. Dal 2003 ad oggi si sono sviluppate con vitalità e alcune organizzazioni hanno toccato quota 26 mila iscritti.

Difficile il rapporto con il governo
«Dopo la caduta del regime ci siamo attivati subito» – racconta ancora Abdullah Khalid Omar – «per diffondere la cultura dei diritti umani. La gente non sa nemmeno di averne ed è da qui che bisogna partire. Il nostro lavoro è quello di documentare le violazioni e fare interposizione con il governo». Che però non vuole ancora “istituzionalizzare” i rapporti con la società civile e preferisce invece controllarla. Tra le ultime leggi discusse in Consiglio dei ministri nelle scorse settimane, ce c’è una che crea scalpore e produrrà, si spera, una forte mobilitazione civile e internazionale: un disegno di legge che prevede il controllo dei finanziamenti delle associazioni. «Questo significa» – spiega Salama A. Ridha al-Sagban, che guida l’Organizzazione per la giustizia delle donne – «che deciderà il governo se approvare o meno i fondi che ci arrivano. Un assurdo anche perché noi campiamo davvero di poco, andiamo avanti con autofinanziamenti. A volte otteniamo fondi dalle organizzazioni internazionali, o partecipiamo a bandi finanziati dalle ambasciate o dall’Unami, la missione Onu d’assistenza all’Iraq e reclutiamo persone semplicemente girando il Paese, documentando le tragedie che ancora si vivono».

Le conquiste
L’Iraq, che conta 26 milioni di abitanti, di cui 4 milioni di sfollati, ha circa il 40% della popolazione stretta nella morsa della povertà e le donne sono quelle che continuano a subire le peggiori condizioni. «Sono loro che hanno pagato il prezzo più alto negli anni precedenti» – racconta Shatia N.H.Almaidna, presidente di Women for peace – «vittime sempre di stupri e violenze». In questi sei anni hanno però ottenuto importanti vittorie: «Ora abbiamo 25 donne nelle istituzioni. Speriamo nell’abolizione della legge 41 della Costituzione, che offre la possibilità agli iracheni di organizzare il codice civile e di famiglia secondo la propria appartenenza religiosa e culturale e la legge sul delitto d’onore», prosegue Shatia.

Le prossime sfide
Insomma, c’è ancora molto da fare. Tra le prossime battaglie, la legge antisindacale dei tempi di Saddam (ancora vigente): rende l’attività dei difensori dei lavoratori illegale. Sono la categoria che ha subito più minacce, arresti e uccisioni di tutta la società civile. Un altro fronte sul quale queste organizzazioni intendono continuare a lavorare è il rilancio culturale e turistico del paese. La democrazia passa attraverso (anche) la possibilità di uscire e di entrare in Iraq, dove il 31 gennaio scorso si sono svolte le elezioni regionali: hanno ratificato la rinascita del nazionalismo laico e si sono svolte «senza brogli e senza divisioni su base etnica» puntualizza Abdullah Khalid Omar.
Ma se sono «più speranzosi», come ammette Hassan J.Awad Sdawi, dell’Iraq Federation of oil union, il più grande sindacato iracheno per la protezione del petrolio, ora che la Casa Bianca ha cambiato inquilino, sanno bene c’è da giocare un’altra importante partita. «Il futuro potrà diventare la seconda fase dell’occupazione americana», spiega Hassan, «quella dell’accaparramento dei giacimenti petroliferi. Vogliono privatizzare il nostro “oro nero”. Chiediamo aiuto alla comunità internazionale affinché si rispettino innanzitutto i diritti dei lavoratori iracheni».


L’organizzazione civile irachena è rappresentata da 46 associazioni. Di queste 20 sono nate nella capitale Baghdad, 8 ad Erbil, città settentrionale curda. Le altre si diramano tra Mossul, Babel, Bassora, Falluja, Najaf, Kerbala e Suleymania. Sono quasi tutte dedite alla difesa dei diritti umani e civili e prevalgono i sindacati in difesa dei lavoratori (9). Sorprendono l’attivismo femminile (8 associazioni, esclusivamente dedicate ai diritti delle donne) e quello giovanile (i ragazzi dal Nord al Sud si mobilitano con organizzazioni studentesche, 5 esattamente, per “un Iraq unito”). Quattro le reti invece dedicate alla libertà di espressione e stampa. Quella che ha il maggior numero di iscritti, 26mila è il  “Sindacato per la difesa del petrolio”.

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