Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Ecco le parole già analizzate da Luigino Bruni: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole, Interesse, Organizzazione, Reciprocità. Questa settimana la prima puntata della parola «Capitale».
La storia dell’economia può essere raccontata anche come l’evoluzione del significato di capitale. Capitale deriva dal latino caput, capitis, che significa “capo”, “testa”, ma anche ciò che è principale e dal quale le altre parti discendono. Uno dei primi significati economici di capitale è stato, infatti, quello finanziario, dove il capitale (parte principale, caput) generava elementi secondari (interessi) che da questo discendevano. Nell’antichità il capitale erano anche i “capi” di bestiame, una importante forma di ricchezza. Con l’economia classica tra Sette e Ottocento il capitale viene visto come il principale fattore produttivo (insieme al lavoro e alla terra) dal quale dipendono, primariamente, le sorti del sistema economico che, non a caso, da Marx in poi sarà denominato proprio “capitalismo”.
Nel marxismo il capitale (che è anche il titolo del libro più importante di Marx, 1867) diventa la chiave di lettura non solo della dinamica economica ma dell’intera società. L’appropriazione dei mezzi dei produzione (il capitale) da parte dei capitalisti viene vista come l’origine e la spiegazione di ogni diseguaglianza e di ogni ingiustizia sociale (tra cui l’appropriazione indebita da parte dei capitalisti del valore creato dai lavoratori). Marx aveva teorizzato una natura transitoria del capitalismo, poiché la legge endogena di movimento della storia avrebbe portato al suo superamento. L’idea di un superamento del capitalismo ha dominato il dibattito teorico fino alla seconda guerra mondiale. L’economista liberale austriaco J.A. Schumpeter, ad esempio, uno dei maggiori scienziati sociali del XX secolo, nell’introduzione ad uno dei suoi libri più importanti (Capitalismo socialismo democrazia, 1942) scriveva: «Può il capitalismo sopravvivere? No, non credo che lo possa». La spiegazione di questa sua profezia consisteva nel deterioramento della funzione innovatrice dell’imprenditore che Schumpeter intravvedeva nella nascita del capitalismo finanziario dominato da poche grandi imprese. Di fine del capitalismo non si è più parlato tra gli economisti teorici e liberali fino a questa crisi. Una delle ragioni di questa eclisse è la confusione, molto comune, tra capitalismo ed economia di mercato: non potendo oggi mettere più in discussione l’economia di mercato, non si mette più in discussione neanche il capitalismo. In realtà l’economia di mercato non coincide con il capitalismo: quella nasce ben prima del capitalismo, ha conosciuto varie forme non-capitalistiche che hanno convissuto con il capitalismo (si pensi al movimento cooperativo), e certamente gli sopravviverà.
Nel corso degli ultimi decenni la parola capitale si sta sempre più distinguendo e autonomizzando dal capitalismo: si parla di capitale umano e di capitale sociale, intesi come nuovi fattori di produzione da cui dipende la produzione di ricchezza (e non solo). Il capitale umano è entrato per primo nel dibattito, nel dopoguerra, quando importanti economisti (tra cui G. Becker) iniziarono a costruire modelli dove spiegavano che un’azienda o un sistema economico crescono quando oltre ai capitali fisici, finanziari e tecnologici, dispongono anche di capitale umano, cioè di persone qualificate, formate, che hanno fatto investimenti in istruzione e che hanno così aumentato il valore capitale della loro persona e quindi della loro azienda. In realtà questa idea era già presente in economisti classici come Pareto a fine Ottocento, o il veneziano Ortes quando affermava che la ricchezza di un popolo è la sua gente (1792).
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