Volontariato

I due uomini chiave della macchina dei volontari

Dietro le quinte di un fenomeno che ha stupito l'Italia

di Daniele Biella

Sono Luciano Dematteis di Anpas e Paolo Diani delle Misericordie. Ai loro ordini all’Aquila hanno lavorato molti dei 5mila volontari esperti di primo soccorso. Personale preparato ad operare nei luoghi della tragedia. In italia come loro ce ne sono 60mila. Ecco chi sono e come si preparano Volontario non si nasce. Si diventa. Se si vuole far parte dei 5mila volontari della Protezione civile presenti in questo momento a L’Aquila, la regola è una sola: vietato improvvisare. «Sono finiti i tempi del “si prende e si va a dare una mano dove e come si può”, come è accaduto in passato, ad esempio nell’alluvione di Firenze del 1966. Oggi solo con una buona dose di professionalità si è d’aiuto nelle emergenze». Parole esplicite ma misurate quelle di Luciano Dematteis, che dal 1996 è il responsabile per la protezione civile dell’Anpas, l’Associazione nazionale pubbliche assistenze. A 67 anni, ancora in queste ore Dematteis sta coordinando una delle tendopoli più centrali dell’Aquila, quella di Acquasanta. Mille gli sfollati presenti (sui 25.050 totali, divisi in 67 aree con 4.175 tende e 1.396 bagni), cento i volontari Anpas che danno loro una mano, alternandosi ogni sette giorni. «In media sui 35-40 anni, il 60% uomini, tutti con compiti precisi, assegnati loro da un capo-campo: una decina di cuochi, altrettante figure specializzate come medici, ingegneri, elettricisti, falegnami. Il resto si occupa delle varie mansioni di gestione, come la pulizia, la distribuzione di materiale», spiega Dematteis. «Oggi la macchina degli aiuti c’è e funziona, per questo è meglio integrarsi che muoversi da soli».

Una macchina nata nel 1992
La macchina di cui parla si chiama Volontariato di Protezione civile, appunto. Istituito con la legge 225 del 1992, incorpora oggi 2.500 organizzazioni, tra organismi (Anpas, Misericordie, Cri, Associazione nazionale alpini tra le più note) e i cosiddetti “gruppi comunali” legati a enti locali, per un totale di 1,3 milioni di volontari attivi. Di questi, 60mila compongono la cosiddetta task force: l’unità super operativa, pronta a intervenire pochi istanti dopo il disastro, che tutte le televisioni del mondo hanno visto all’opera nella tragica notte tra il 5 e il 6 aprile in Abruzzo.
Ma chi fa parte di questi “angeli delle macerie”? «Gente che sa come muoversi in ogni situazione, che sa montare una tenda da campo in meno di due ore, che è disposta a non dormire per due giorni», snocciola il responsabile dei 100mila volontari di protezione civile (il 10% nella task force) Anpas. L’impressione è che questo tipo di volontariato non sia per tutti. «É per tutti quelli che hanno una formazione alle spalle», ribatte Dematteis. Ovvero, che abbiano svolto «corsi di primo soccorso, esercitazioni periodiche, aggiornamento continuo». Tre fine settimana all’anno, l’Anpas organizza una “formazione per formatori”: «Almeno 40 delegati apprendono nozioni specifiche di varie mansioni che poi, a cascata, riversano nelle sezioni locali. Poi ognuno, a seconda delle proprie capacità, si specializza in un settore».

45 minuti dopo la scossa
La stessa divisione dei compiti si ritrova in un altro grande ente nazionale di protezione civile, l’Ugem – Ufficio gestione delle emergenze di massa delle Misericordie (composto da 800mila volontari, di cui 5mila da primissimo soccorso), diretto dal 2007 da Paolo Diani, 55 anni: «Dopo un corso iniziale di due mesi, due sere a settimana, in cui il nuovo volontario conosce l’associazione e viceversa, si può già essere operativi. Il passo seguente è approfondire la conoscenza di un settore: quello sanitario, il pronto impiego, la logistica, la formazione o la prevenzione», chiarisce Diani, che alle 4.15 del 6 aprile, 45 minuti dopo la scossa più grande, stava già coordinando le prime 40 ambulanze accorse all’Aquila.
Anche lui, nelle Misericordie dal 1978, ha un’idea precisa dell’identikit del volontario di protezione civile: «Non dev’essere un “Rambo del volontariato”, che arriva con buona volontà ma scarsa preparazione, e si ritrova ad aumentare i rischi per sé e per gli altri. Al contrario, deve avere delle conoscenze di base, ed essere in un gruppo affiatato». E specifica: «Mi rendo conto che può essere vista come un’impostazione rigida, ma non sto cercando di “ingabbiare” il volontario. Il fatto è che nella società di oggi fare il soccorritore nelle emergenze significa avere più professionalità che in passato, viste le tecniche avanzate a disposizione». E se qualcuno vuole essere comunque d’aiuto? «Verrà impiegato nelle fasi successive all’emergenza, come accade ora in Abruzzo».


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