Welfare
Ricchezza e povertà: la livella del terremoto
Da uno dei nostri inviati a L'Aquila
Il lungo tunnel del Gran Sasso che sbuca nell’epicentro del terremoto è deserto e fa paura. All’uscita mi aspetta un cielo denso e plumbeo, un’aria ferma e silenziosa, quella che gli anziani dicono essere aria di terremoto. Il campo di raccolta degli sfollati dell’Aquila è una larga distesa di tende azzurre, in città. Intorno, palazzi che sembrano case di bambola come quella con cui gioca mia figlia: camere da letto, bagni, cucine, tutto a vista e la privacy di quegli abitanti ridotta in macerie.
È l’ora di pranzo, e una lunga fila di uomini, donne e bambini aspetta di avere un piatto di pasta al sugo. Per la frutta e la verdura c’è un’altra fila. Per i vestiti un’altra ancora. Nessuno protesta, qui il tempo non manca. Il tempo è tanto, per gente che fino a ieri ne aveva così poco. Queste code di persone come me, come voi, che sono insegnanti, operai, negozianti, infermieri, o ingegneri, fanno un certo effetto, abituati ad immagini di questo tipo tra gente in guerra, o in qualche paese africano.
Una donna anziana, con una vestaglia rosa e ancora il pigiama con cui è scappata da una casa ora distrutta, siede fissando le pagine di un quotidiano locale piene di foto dei morti. «Ci sono tanti amici di mio figlio, tutti giovani – dice – e persone che conoscevo. Io sono stata fortunata. So che devo morire, ma così no, non vorrei morire così». Mafalda ha 78 anni, è vedova, non ha figli ed è disabile per i postumi di un ictus. L’accudisce una rumena di mezza età, fresca di divorzio e arrivata due anni fa a L’Aquila per trovare il suo Eldorado e che ora gira incredula lo sguardo intorno a questa tendopoli, dove resterà per chissà quanto. Mafalda la conoscono tutti all’Aquila, è stata una delle donne più belle e invidiate della città. Di lei si raccontano vacanze in yacht tra la Costa Azzurra e Portofino e passeggiate per il corso principale con pelliccia di leopardo e cappelli da diva. Mafalda è anche una donna colta, di lavoro faceva la giudice. È proprietaria di un enorme patrimonio immobiliare, sgretolatosi in mezzo minuto.
Emilia di anni ne ha 81. Rimasta vedova giovane, nemmeno lei ha figli. Nella vita ha sempre lavorato, a servizio, o come bracciante. Quando c’è stato il terremoto è corsa in strada e per tre notti ha dormito in auto. Ci tiene a mostrarmi la patente, rinnovata lo scorso anno. E’ una donna povera, Emilia, pronta al sorriso e alla battuta. Mafalda, la badante rumena ed Emilia dividono la stessa tenda blu della protezione civile, nel campo principale dell’Aquila. E questo è l’aspetto che nessuna tv, con le sue telecamere, può mostrare: l’eguaglianza sociale portata dal terremoto. Ricchi e poveri, giovani e vecchi, donne e uomini, si ritrovano in questo campo di raccolta uguali l’uno all’altro. «Gli uomini – mi dice una volontaria del servizio psicologico del campo – sono quelli che reagiscono peggio al trauma. Sono spiazzati, attoniti. Siedono ore fuori dalla loro tenda, sotto choc. I bambini reagiscono meglio, su di loro c’è una grande attenzione e molto lavoro».
Il piazzale del campo è un enorme spazio giochi, dove collaborano scout e i bravissimi clown dottori. I bimbi appaiono sereni, come se stessero vivendo un’inaspettata avventura. Per loro presto ricomincerà la scuola. Fuori dal campo, per una parvenza di ritorno alla normalità. Per Emilia la cosa peggiore è il freddo. Nelle tende mancano ancora le stufe e la luce, le lenzuola delle brande sono gelide. Subito aggiunge: «Però io qui sto bene, sono felice e questa disgrazia una cosa buona l’ha portata, mi ha fatto trovare delle amiche, degli affetti». E mi spiega che dove la vita di tutti i giorni, coi suoi ritmi, le sue scale e i portoni chiusi, non è riuscita a rompere la solitudine di persone che si lasciavano vivere tra colazione, pranzo e cena e con la tv come sola compagna, il terremoto in poche ore ha avvicinato tutti in una solidarietà senza differenze.
Nella foto che illustra questo articolo, Emilia e Mafalda giocano a carte davanti alla loro tenda
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