Economia

Interesse, quel “di più” ha ragioni fondate

di Stefano Zamagni e Luigino Bruni

Una guida a rileggere le parole chiave dell’agire economico, dopo la caduta dei miti e lo sgonfiarsi delle bolle. Il «Dizionario» di Luigino Bruni è arrivato all’ottava voce. Le parole già analizzate nelle scorse settimane: Felicità, Profitto, Mercato, Banca, Investimento, Responsabilità, Regole. Questa settimana (e la prossima), la voce Interesse.

Interesse è una parola dal significato ambivalente. In economia per interesse si intendono infatti almeno due realtà diverse. Il primo significato che salta alla mente è l’interesse sul denaro. Questo interesse, inteso come compenso per chi consente ad altri l’uso di denaro non proprio (da cui la parola usura), è stato oggetto di dibattiti secolari se non millenari, e ancora oggi ben vivi e civilmente molto rilevanti. Fino all’inizio della modernità, il prestito ad interesse era proibito dalle norme morali (religiose), e la ragione principale di questo divieto era di tipo filosofico e teologico: la natura sterile del denaro. Come ben sapevano il Gatto e la Volpe (e come invece ignorava l’ingenuo Pinocchio) il denaro non è in sé fruttifero: lo è solo nel Paese dei barbagianni. Se per seminare prendo in prestito la semente dal vicino di casa, quando avrò il raccolto potrò restituire la semente più gli interessi perché quei 10 semi ne hanno nel frattempo fruttato 100. Col denaro, si pensava, questa moltiplicazione non si verifica, e chiedere un “di più” al momento del rimborso era considerato un atto immorale. Teologicamente, poi, si aggiungeva un’altra argomentazione: se presto oggi 100 e domani ne richiedo 101 sto lucrando sul tempo, che è il solo elemento che è cambiato nel frattempo: ma il tempo non è nostro, il tempo è di Dio. A questo punto domandiamoci: questa condanna dell’interesse era dovuta solo ad una teoria economica primitiva e involuta? Non solo, poiché c’è anche una spiegazione ancora oggi ragionevole, che possiamo intuire quando accostiamo quell’antico divieto a chi considera moralmente ingiusto chiedere un “di più” ad un fratello quando ci restituisce il denaro che gli abbiamo prestato per riparare la casa: nella Christianitas medievale la fraternità era estesa ad ogni fratello cristiano. Al tempo stesso possiamo capire il superamento di quell’antico divieto se pensiamo alla differenza tra un prestito fatto oggi ad un familiare per riparare la casa e il prestito fattogli per consentirgli di non perdere un buon affare: in questo secondo caso diventa eticamente legittimo chiedere anche ad un famigliare di poter partecipare ad una quota dei futuri profitti (l’interesse). Quando, infatti, grazie allo sviluppo dei commerci e dei mercati, sul finire del Medioevo i prestiti iniziarono normalmente ad essere utilizzati per investimenti produttivi, divenne moralmente lecito richiedere sulle somme prestate ai mercanti un interesse, che veniva percepito come una remunerazione per la partecipazione al rischio d’impresa (un’idea ancora oggi presente anche in esperienze di banca islamica). Si riuscì (almeno per qualche decennio) a conciliare gli interessi con la fraternità cristiana. Per questa ragione il tasso d’interesse è sempre direttamente collegato al rischio dell’investimento. Una delle ragioni della crisi che stiamo vivendo è stata la sottovalutazione di questa antica verità.
C’è poi un secondo significato del termine interesse, che rimanda alle motivazioni delle azioni economiche: normalmente si afferma che si agisce in economia mossi dagli interessi personali, da quello che Adam Smith chiamava il “self-interest”, un’espressione che potremmo tradurre con “tornaconto” personale. In effetti un progetto economico dura nel tempo se oltre a rispondere a interessi generali e al bene comune risponde anche agli interessi e al tornaconto di chi promuove quell’attività e di chi vi lavora. Ma come possono convivere interesse individuale e interesse collettivo? Lo vedremo settimana prossima.

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