Famiglia

Case famiglia in agonia

Ritardi nei pagamenti e burocrazia: le comunità per minori sono al collasso

di Chiara Cantoni

Per emettere i rimborsi, gli enti locali esigono un documento che attesti il pagamento degli stipendi degli educatori. Piccolo particolare: soldi per gli stipendi non ce ne sono, perché gli stessi enti locali sono morosi… È nato prima l’uovo o la gallina? È più o meno questo il rompicapo che da anni affligge le strutture di accoglienza dei minori della Campania, nel momento in cui si apprestano ad emettere fattura per ricevere il dovuto rimborso delle rette di mantenimento dagli enti locali. Questi ultimi, per pagare le comunità famiglia, esigono la presentazione del Durc, il documento unico rilasciato congiuntamente da Inps e Inail che ne dimostra la regolarità contributiva. «Ma come possono le cooperative versare i contributi agli educatori, se i ritardi dei rimborsi impediscono persino di pagargli gli stipendi? Per molti gestori di comunità produrre il Durc è semplice utopia. A meno che i Comuni non si decidano a saldare i debiti per i quali è richiesto il documento». Appunto.
A denunciare un circolo vizioso dai risvolti kafkiani, che sarebbe persino comico se a farne le spese non fossero i bambini vittime di maltrattamenti, è Fedele Salvatore, presidente della Cooperativa Sociale Irene 95 e rappresentante per il Corcof – Coordinamento regionale delle comunità di tipo familiare per la tutela dei minori della Campania onlus di Sam Campania, il movimento unitario che raccoglie sotto un’unica sigla i coordinamenti delle comunità del territorio regionale (150 strutture circa). «La verità è che, mentre uovo e gallina si contendono il diritto di anzianità, le case famiglia muoiono di lento stillicidio». Cinque hanno già chiuso nei primi due mesi del 2009 e molte di più corrono a grandi passi verso lo stesso destino: «A rischio, tutte le comunità che accolgono bambini provenienti dai Comuni insolventi, Napoli in testa, con un debito superiore ai 20 milioni per il 2008», dice Pasquale Calemme, presidente della federazione regionale Campania del Cnca – Coordinamento nazionale comunità di accoglienza. «Tradotto in cifre, significa un centinaio di strutture sull’orlo del collasso, praticamente il 30% del totale in territorio campano. Con 500 minori solo nel capoluogo partenopeo che da un momento all’altro potrebbero trovarsi in mezzo a una strada».
La controversia sui mancati rimborsi è un teatro dell’assurdo che va in scena ormai da anni, con le pubbliche amministrazioni solidali sul piano ideale tanto quanto sono inadempienti sul fronte operativo. «Molte comunità non vedono un centesimo da dicembre 2007 e non sanno più come trattenere il personale in fuga», lamenta Calemme. «Addirittura, alcuni istituti di credito non accettano più fatture per il Comune napoletano, declassato persino dalle agenzie di rating». La macchina del welfare è al collasso e le strutture sono a corto di escamotage. «Alternare l’accoglienza di minori partenopei a quella di bambini delle amministrazioni più virtuose è la sola possibilità per continuare ad esistere».
La corsa al Comune pagante, scatenata dall’inadempienza della giunta Jervolino, è l’altra faccia di un sistema che alimenta un ancor più grave e dilagante paradosso. «Per stipendiare, come da contratto nazionale, il numero di educatori professionali previsto dalla normativa vigente, la Regione ha fissato rette minime giornaliere di 90 euro per le case famiglia con coppia residente e di 130 euro per le comunità educative di tipo familiare», spiega Carmine Santangelo della cooperativa Grillo Parlante, referente Sam per il consorzio Core – Cooperative sociali cooperazione e reciprocità. «Tariffe che molti Comuni rifiutano di onorare, ponendo le strutture di accoglienza di fronte a un’assurda alternativa: accettare di applicare rette inferiori alla soglia minima legale, sottopagando gli operatori e abbassando la qualità dei propri standard, oppure vedersi rifiutare i minori da parte dei servizi sociali in affanno coi bilanci».
Il risultato? L’illegalità eretta a sistema, dove le esigenze dei minori sono sacrificate alle ragioni del portafoglio e il criterio economico rimane il solo utile a valutare la bontà di un progetto di recupero. Manco a dirlo, le strutture virtuose, in linea con la normativa regionale, si trovano penalizzate dalla concorrenza sleale di chi invece accetta il compromesso.

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