Mondo

La finanza islamica ha illuso i suoi fan

I fondi dei Paesi arabi sembravano immuni. Invece...

di Martino Pillitteri

Solo un anno fa si garantiva sulla tenuta di quei fondi di investimento.
Che hanno limitati margini di speculazione. E che avevano l’economia
del petrolio alle spalle. Invece non hanno retto. Ecco perché Un articolo di Arabnews, organo di informazione saudita molto seguito in Occidente, pubblicato qualche mese fa garantiva che la finanza islamica sarebbe stato l’unico sistema immune alla crisi mondiale. «Migliaia di investitori non perderebbero milioni di dollari se la finanza fosse regolata dai principi che regolano la finanza islamica. Sono i bond islamici gli strumenti che possono portare stabilità ai mercati finanziari. Il sistema finanziario islamico», ha sostenuto il guru dell’economia saudita, Umer Chapra, «è in grado di minimizzare i rischi ciclici che colpiscono i mercati».
In realtà i numeri dimostrano come gli investitori non abbiano una fede incondizionata nei confronti dei bond islamici. Prima del grande crack determinato dai titoli tossici americani, quello islamico era il ramo della finanza mondiale più in crescita. Peccato però che, secondo i dati di Standard & Poor, l’emissione di bond nel 2008 sia calata del 56% rispetto all’anno precedente. Nel 2007, gli asset della finanza islamica ammontavano a 32 miliardi di dollari; il saldo del 2008 è crollato a 15 miliardi.
I Paesi che hanno subìto una maggiore diminuzione nell’emissioni di bond sono quelli del Golfo con un -55% e la Malasia con il -59%. Anche per il mercato azionario islamico, il 2008 non è stato un anno buono. Mentre la media dei mercati azionari globali è scesa del 40%, l’Islamic World Market Index ha registrato una perdita del 37,8%.
Ma perché, nonostante la benedizione collettiva dei nuovi media satellitari arabi negli Emirati e degli economisti internazionali, alla fine la performance dei bond islamici è stata in linea con la media globale dei prodotti finanziari occidentali? Secondo l’analisi di Standard & Poor, alla fine anche l’islamic finance non è immune alle grandi crisi cicliche, non può crescere nei periodi caratterizzati dalla mancanza di liquidità e paga l’attitudine prudenziale “wait and see” (aspetta e guarda) degli investitori.
La finanza islamica offre servizi e prodotti che si basano su due pilastri: non si possono ottenere interessi sui prestiti e bisogna effettuare investimenti socialmente responsabili. I fondi di investimento islamici infatti escludono per statuto le società che hanno un rapporto superiore del 30% fra debiti e capitale sociale. La legge islamica proibisce di investire in aziende coinvolte nella produzione e distribuzione di alcolici, tabacco, pornografia e scommesse. Standard & Poor prevede che il mercato dei bond islamici riprenderà la sua crescita tra il 10 e il 30% da metà del 2010. La sfida più ardua è quella della penetrazione del mercato europeo, che vista la presenza di immigrati dal mondo arabo rappresenta una potenziale fetta non ancora conquistata.
Se gli investitori europei non sembrano subire l’appeal della finanza islamica, i fondi sovrani dei Paesi arabi guardano con un occhio di riguardo agli investimenti in Europa. Questi fondi controllati direttamente dai governi di alcuni Paesi il più delle volte non democratici ed esportatori di petrolio come gli Emirati Arabi Uniti e il Qatar (anche se esistono un fondo norvegese ed un fondo dell’Alaska), oltre alla liquidità dispongono soprattutto dell’intelligence dello Stato, sia per quanto riguarda la volontà di coprire le informazioni che per ottenerle. Non a caso le statistiche ufficiali sui fondi sovrani arabi non sono accessibili alla stampa internazionale. Le uniche informazioni filtrate dalla stampa araba governativa stimano però che le perdite dei fondi sovrani nel 2008 siano state tra il 20 e il 30% del totale degli asset, stimato intorno ai 3mila miliardi di dollari.


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