Mondo

Ong, il grande vuoto

Secondo i dati Onu, l'espulsione delle 13 organizzazioni non governative decisa dal presidente del Sudan per ritorsione al mandato d'arresto nei suoi confronti ha lasciato più di un milione di persone senza cibo, acqua e cure mediche

di Emanuela Citterio

A bloccare una nuova cacciata delle ong dal Darfur è stata la Lega Araba. «Cio che è accaduto è accaduto, ma le organizzazioni non governative che non sono state espulse rimarranno nel Darfur per svolgere la loro missione» ha detto il 7 marzo a Karthoum Amr Moussa, segretario generale della Lega che riunisce 21 Stati arabi. Il 4 marzo la Corte penale internazionale (Cpi) ha spiccato un mandato di arresto contro il presidente del Sudan Omar el Beshir per crimini di guerra e contro l’umanità commessi durante i sei anni di guerra in Darfur. Poche ore dopo 10 organizzazioni internazionali – Care, Oxfam, Medici senza frontiere Olanda e Msf Francia, Mercy Corps, Save the Children, Norwegian Refugee Council, International Rescue Committee, Action Contre la Faim, Solidarites, CHF International – si sono viste recapitare l’invito a lasciare il Paese nel giro di 24 ore, con l’accusa di aver «collaborato» con la Cpi. Il giorno seguente il presidente sudanese ha aggiunto alla lista Medici senza frontiere Francia, Save the children Usa e l’ong con sede a Washington Padco e ha chiuso tre agenzie sudanesi che operavano nella regione.

Secondo i dati Onu, l’espulsione delle 13 ong ha lasciato più di un milione di persone senza cibo, acqua e cure mediche. Le Nazioni Unite hanno invitato Khartoum a rivedere la sua decisione, sottolineando che «le operazioni di queste agenzie sono vitali per 4,7 milioni di sudanesi che ricevono aiuti in Darfur» (prima della guerra, la regione del Darfur contava 7 milioni di abitanti).
Il Consiglio della Lega Araba si è detto fin da subito «molto turbato per il mandato di arresto contro Omar al Bashir», schierandosi di fatto con il presidente del Sudan, ma è intervenuto in difesa delle operazioni umanitarie in Darfur. E ha ottenuto quello che non è riuscito alle Nazioni Unite.

Le ong rimaste sono ancora in una situazione di allerta. Fino al 4 marzo, oltre al coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite (Ocha), erano presenti in Darfur 85 ong con circa 17mila operatori, in maggioranza sudanesi. Le ong italiane con il maggior numero di personale nella regione sono Coopi, con cinque espatriati italiani e una cinquantina di operatori sudanesi, e Intersos, con una decina di italiani oltre al personale locale. «Le Nazioni Unite ci hanno consigliato di non muoverci dalle nostre sedi» afferma Valentina Zita, responsabile dei progetti di Coopi in Sudan. «La situazione è ancora tesa, anche se stiamo cercando di continuare con i programmi di assistenza alimentare, avvalendoci soprattutto dei nostri operatori sudanesi».
L’8 ottobre el Bashir è andato in Darfur, e dalla capitale El Fasher ha lanciato un altro avvertimento: «Ho un messaggio per tutte le missioni diplomatiche presenti in Sudan, le organizzazioni non governative e i caschi blu» ha detto, «devono rispettare le leggi locali, altrimenti saranno espulsi all’istante dal Paese».
Nel frattempo Khartoum e le Nazioni Unite hanno raggiunto un accordo per inviare nella regione occidentale del Darfur tre missioni tecniche congiunte, con l’incarico di valutare le necessità umanitarie urgenti. Stando a quanto annunciato dal portavoce dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), Elizabeth Byrs, l’accordo deve consentire di «adattare i piani di emergenza» alla nuova situazione umanitaria che si è venuta a creare nella regione dopo l’espulsione delle 13 ong internazionali.
«Lavoriamo nei villaggi del Nord Darfur, dove gli abitanti pagano la guerra per il controllo del territorio, subendo i bombardamenti, le incursioni dei ribelli e le razzie dei janjaweed, i miliziani a cavallo» racconta Valentina Zita. «Le necessità più urgenti sono l’acqua e i beni alimentari, visto che gli allevatori non riescono più nemmeno ad abbeverare il bestiame senza incontrare un agguato sulle loro rotte. In quest’area semidesertica non ci sono scuole né assistenza sanitaria. La prima necessità della popolazione però resta sempre la stessa: che finisca la guerra».

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