Chiara è la studentessa ideale, quella che tutti gli insegnanti vorrebbero avere. Nella formazione tipo di una squadra, lei occupa indiscutibilmente il primo posto. È sveglia, simpatica, intelligente, ha ottimi voti in tutte le materie, è impegnata due ore al giorno a far giocare i bambini all’oratorio, aiuta i suoi compagni in difficoltà.
Quando Bruno, il suo compagno di banco, in uno di quegli stupidi giochi adolescenziali le ha ruotato il polso della mano sinistra, procurandole una frattura con obbligo di gesso per un mese, Chiara non ha smesso di mantenere il sorriso di sempre, e ha considerato il gesto di Bruno un piccolo incidente di percorso. Il rancore non le appartiene. Nella sua classe è l’asse portante, e se fossimo al mercato dei calciatori delle grandi squadre, dichiarerei Chiara «incedibile».
La settimana scorsa, invece, è stata lei a cedere. Nel corso di una partita di pallavolo dei campionati studenteschi, Chiara, che è capitano della squadra, ha mandato a quel paese l’arbitro, gridandogli in faccia con rabbia un «vaffa». Subito dopo è comparso il cartellino rosso e lei, espulsa, ha guadagnato gli spogliatoi. In effetti, l’arbitraggio aveva lasciato a desiderare in più occasioni, ma la reazione di Chiara mi ha lasciato di stucco, cancellando in pochi secondi quattro anni di princìpi tesi al rispetto dell’arbitro e degli avversari, oltre che dei compagni. Ho trascorso il resto del tempo a discutere con lei, tralasciando quanto succedeva in campo. Le ho ricordato, parlando dell’arbitro, che errare è umano, e lei mi ha risposto che perseverare è diabolico.
Dopo la partita, tornando a scuola, mi sono chiesto: che cosa succede in questo Paese, se ormai anche nel dna di Chiara si è insediato il virus della contestazione verbale violenta e volgare, che appartiene alla cultura del bar sport, urlata in faccia all’avversario di turno o all’arbitro e accompagnata da ogni sorta di gestualità?
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