Welfare

Povertà, si cambi marcia

L'Osservatorio sulla 328: occorre un piano nazionale per un cambiamento radicale delle politiche di contrasto

di Luca Zanfei

“Serve un radicale cambiamento di rotta nelle politiche di contrasto alla povertà”. L’appello arriva direttamente dall’Osservatorio nazionale per l’attuazione della Legge 328 che, durante il convegno  – Crisi Economica povertà ed esclusione sociale: la necessità di un piano nazionale” tenutosi nella sede romana del Cnel – invita il Governo a ripensare gli interventi a sostegno delle famiglie e propone un Piano Nazionale contro la Povertà che privilegi il sostegno al reddito e il potenziamento dei servizi sociali a livello locale. D’altronde, come già attestato dall’Istat, dal 1997 a oggi il livello di povertà relativa è rimasta stabile, segno di una sostanziale inefficacia delle politiche di welfare messe in campo dai diversi governi. Tanto da posizionarci agli ultimi posti in Europa in fatto di contrasto al disagio, con oltre il 20% della popolazione a rischio povertà contro il 16% dei 25 pesi dell’Ue.


La soluzione proposta dalle associazioni riunite nell’Osservatorio – Anci, Forum Terzo settore, Cgil, Cisl e Uil e Legaautonomie – è allora quella di puntare su alcune  priorità che vanno dal sostegno al reddito, all’investimento su misure rivolte alle famiglie con minori, fino all’istituzione di un Reddito di inclusione sociale e, soprattutto, alla valorizzazione del ruolo delle autonomie locali nella programmazione, gestione e monitoraggio degli interventi.


“Finora le risorse sono state distribuite in maniera diseguale – spiega Paolo Beni del comitato di coordinamento del Forum – La politica delle erogazione monetarie e degli interventi una tantum si è ormai rivelata inadeguata, tanto da accentuare le difficoltà di accesso ai servizi e il graduale depauperamento del reddito. Oggi, invece, sono necessari interventi di lungo termine che coinvolgano il territorio e tutti i soggetti di terzo settore. Servono politiche di formazione, inserimento socio-lavorativo, nonché interventi per la genitorialità e per il sostegno all’autonomia dei giovani.  che coinvolgano tutti i soggetti attivi sul territorio, per primis il terzo settore. Insomma si deve capire che la spesa sociale non è un costo, ma un investimento”.

Peccato però che i governi finora abbiamo definitivamente scelto di privilegiare una sola fetta del disagio, puntando decisamente sulla spesa pensionistica. Con l’unico risultato di favorire l’impoverimento di nuove categorie, come i giovani e i lavoratori a bassa professionalità.

“L’Italia è la prima in Europa in fatto di interventi sulle pensioni e l’ultima per quanto riguarda provvedimenti ad hoc di contrasto alla povertà – spiega Marco Revelli, presidente della Commissione Indagine sull’esclusione sociale – Si pensi soltanto che l’impatto delle nostre politiche non pensionistiche è stato solo del 4%, mentre negli altri paesi europei ha raggiunto soglie del 50%. Questo perché nel resto dell’Ue si è investito su strumenti di attivazione come il Reddito Minimo di Inserimento; qui invece l’attuale governo ha speso 7 miliardi di euro tra social card, bonus famigliari una tantum e taglio dell’Ici, che complessivamente sposteranno l’indice di povertà di un modesto 0,6%. Nel frattempo ci ritroviamo di fronte al nuovo fenomeno dei working poor, che dal 1997 è cresciuto dell’11%, soprattutto a causa della precarietà delle forme contrattuali. Segno che le politiche di incentivazione al lavoro non sono sufficienti da sole, senza un investimento sulla qualità dell’occupazione”. Così non rimane che rivedere l’intero sistema puntando su interventi universali e selettivi. Privilegiando soprattutto le famiglie con minori, cioè le fasce più colpite dalla crisi.

La proposta del direttore dell’Irs, Emanuele Ranci Ortigosa, à allora un Reddito di Inclusione Sociale per famiglie con minori da poter gradualmente estendere a tutti i nuclei famigliari a rischio. “Si tratta di una misura che prende spunto dal Rmi e si fonda sull’integrazione economica del reddito e sull’istituzione di servizi per l’inserimento sociale – spiega Ranci Ortigosa – Da nostre simulazioni fatte su circa 300 mila famiglie sotto la soglia dei sei mila euro di reddito abbiamo stimato un costo per lo Stato di circa tre miliardi di euro che potrebbero essere raccolti ricomponendo alcune misure finora adottate dal governo. Tale strumento sarebbe efficace solo nell’ottica della progettazione, promozione e gestione a livello locale tramite l’implementazione dei Piani di Zona e avrebbe il grande valore di  garantire universalità, selettività ed equità dell’intervento”.


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