Famiglia

Iran 2009, siamo alla rivoluzione del rossetto

Guardare all'Occidente senza considerarlo nemico

di Redazione

Prima c’era stato lo Shah,
con il suo modello di nazione tutto sdraiato sulle idee occidentali.
Poi è arrivata la reazione khomeinista e il nuovo simbolo
è diventato il turbante.
Oggi la società iraniana
sta cambiando a grande velocità.
E i simboli sono tutti femminilidi Sara Hejazi
Sebbene la nazionalità iraniana che ci portiamo stampata sul passaporto sembri un fatto naturale, immediato e automatico, in realtà il lento processo attraverso cui quella nazionalità è andata definendosi ha spesso richiesto guerre, sacrifici umani e grandi trasformazioni politiche.
La costruzione di una nazione “omogenea”, che si riconosca pienamente nel proprio governo, nella propria lingua nazionale o in un’unica confessione religiosa è infatti un processo conflittuale che, in particolari contesti culturali e momenti storici – come all’alba della rivoluzione iraniana del 1978-79 – si è espresso anche attraverso l’uso di simboli capaci di mobilitare la folla, le idee, le utopie contro un unico obiettivo comune o a favore di un nuovo ideale nazionale da perseguire.

Uno Shah all’americana
Per lo Shah di Persia costruire la nazione iraniana significava una rapida modernizzazione sul modello americano, la dura repressione di ogni forma di dissidenza politica, il sacrificio delle “minoranze etniche” e infine la celebrazione di un’idea di “iranicità” simile per radici e cultura a quella dell’Europa, come lui stesso scriveva nei suoi saggi. Per gran parte degli iraniani di allora, invece, la nazione iraniana significava la rivendicazione di un’autonomia economica dalle potenze occidentali, di un’autenticità culturale ricercata anche nella tradizione religiosa, e la libertà di parola e di espressione. Presto la Corona divenne il sinonimo dell’asservimento iraniano all’Occidente.
L’autenticità culturale della nazione, messa in pericolo da un governo eccessivamente filoccidentale, era riproposta dalla tradizione religiosa: nel turbante del clero sciita, infatti, una larga fetta degli iraniani aveva trovato il simbolo del riscatto culturale. Non si trattava di un semplice turbante sciita tradizionale, ma di un nuovo, rivoluzionario e politicizzato turbante, il cui messaggio diceva che in una inedita versione della religione si sarebbe finalmente e pienamente realizzata la vera nazione iraniana. Il turbante e la barba dell’ayatollah Khomeini furono visti riflessi nella luna e l’utopia rivoluzionaria portò in piazza milioni di iraniani che, infine, guardando con fiducia e speranza al Turbante, così come alla statua della Libertà o a Marx, rovesciarono la Corona.

La forza del Turbante
Tra tutte le molteplici forze impegnate nella rivoluzione iraniana, ciascuna con i propri simboli di riferimento, quella simboleggiata dal turbante risultò la più forte. Per l’ayatollah Khomeini costruire la nazione iraniana significava realizzare sulla terra un governo pienamente islamico, prendere le distanze dal “grande satana” americano ed esportare il modello iraniano in tutti i Paesi arabi; per fare questo dovette fronteggiare e reprimere tutti i gruppi che con le sue idee si trovavano in conflitto, nonché combattere per dieci lunghi anni contro l’Iraq di Saddam.
Il mese di febbraio del 2009 segna l’anniversario della Rivoluzione iraniana. Da allora molte cose sono cambiate nel Paese, e la più significativa è l’inesorabile perdita della forza del simbolo del Turbante, sostituito da altri, inaspettati simboli.

Smalti e veli
C’è una nuova generazione di giovani iraniani venuti al mondo e cresciuti nella Repubblica islamica e che poco o nulla sanno del simbolo della Corona, e che solo vagamente immaginano che significato abbia l’Islam politicizzato, incarnato nel Turbante. Ciò che sanno è che per costruire l’Iran che vogliono, una nazione autonoma ma non isolata dal resto del mondo e che garantisca il rispetto dei diritti umani, devono lottare quotidianamente contro la discriminazione di genere nella giurisprudenza.
I loro strumenti sono la creatività utilizzata per aggirare la censura e i controlli e per continuare ad essere perfettamente inseriti nel sistema-mondo. Ma soprattutto sono quelli che rendono il corpo visibile in una società che tende a velare e coprire e separare: si tratta dei rossetti e degli smalti, dei veli colorati e corti, che irrompono nelle strade e contrastano con i chador neri delle guardiane della rivoluzione. Si tratta di un nuovo linguaggio del corpo nella sfera pubblica, che si esprime nel tenersi la mano dei fidanzati, nello scambio di un bacio furtivo, nel correre nei parchi di ragazzi e ragazze. E poi ancora si tratta di una rivoluzione nel modo di comunicare, come l’utilizzo dei blog su internet e delle chat rooms e dunque nel modo di parlare.
Così, progressivamente, il rivoluzionario Turbante è stato sostituito da un rivoluzionario Rossetto, strumento per una sorta di lipstick jihad, che serve a cambiare il mondo, a ripensarlo, a ridefinirlo costruendo una nuova nazione iraniana, profondamente diversa da trent’anni fa.


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