Le Società della salute mirano proprio all’integrazione socio-sanitaria. Ma lasciano alla cooperazione sociale soltanto un ruolo di consulenzaC’è malumore nel terzo settore toscano sulle nuove regole di governance del sistema di welfare. La recente legge regionale che disciplina le Società della salute (Sds), i consorzi volontari fra le Asl e i Comuni per l’esercizio in forma associata delle attività sanitarie e assistenziali, fa storcere la bocca, in particolare al mondo della cooperazione sociale. Le imprese sociali ritengono infatti che la nuova modalità organizzativa disegni per il non profit un ruolo ancillare rispetto agli attori pubblici. Un ruolo da consulente più che da co-protagonista della programmazione socio-sanitaria dei territori. Una regolamentazione, insomma, che di fatto fa compiere un passo indietro rispetto a quanto previsto inizialmente per le Società della salute ma anche rispetto alla legge regionale 41 del 2005 istitutiva del sistema integrato di interventi e servizi sociali. «Se torniamo con la memoria al punto di partenza del dibattito, ci accorgiamo che il punto di approdo è certamente deludente per le cooperative sociali. Basta rileggere le prime versioni del Piano sanitario, versioni che attribuivano alla cooperazione sociale un ruolo di partecipazione diretta, un ruolo addirittura costitutivo nelle Società della salute», osserva Anna Ferretti, presidente regionale di Federsolidarietà. Un’opinione condivisa da Angelo Migliarini, responsabile toscano di Legacoopsociali. «Sia ben chiaro», precisa, «salutiamo con favore la nascita delle Sds in quanto riportano i Comuni al centro della programmazione e della gestione delle politiche sociali e sanitarie. Solleviamo tuttavia dei dubbi sull’attuazione che è stata data ai principi di partecipazione istituzionale introdotti dalla legge sul sistema integrato: una legge che in realtà riconosce alla cooperazione sociale il ruolo di interlocutore necessario delle istituzioni».
Il punto, sottolineano, è che si corre il rischio di non utilizzare le antenne che il privato sociale ha sul territorio. «La partecipazione al Comitato non farebbe che migliorare la qualità delle prestazioni: si partirebbe dalle reali esigenze dei cittadini. Solo chi ha i sensori come la cooperazione può rilevarle», nota Ferretti di Federsolidarietà. Nel caso del consumo di alcol, ad esempio, le donne sfuggono alle rilevazioni ufficiali in quanto si rivolgono più al telefono amico del terzo settore che ai Sert.
C’è ad ogni modo una via d’uscita, secondo il mondo della cooperazione. «Se non si intende allargare la partecipazione alle imprese sociali o ai loro consorzi negli organismi assembleari, si potrebbe riconoscere un ruolo alle rappresentanze di secondo livello, alle centrali cooperative», suggerisce Migliarino di Legacoopsociali. Una soluzione che eviterebbe alla cooperazione di dire solo un sì o un no su un piano che non hanno contribuito a pieno a delineare.
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