Non profit

E il tentativo toscano delude il non profit

Una riforma contestata

di Francesco Dente

Le Società della salute mirano proprio all’integrazione socio-sanitaria. Ma lasciano alla cooperazione sociale soltanto un ruolo di consulenzaC’è malumore nel terzo settore toscano sulle nuove regole di governance del sistema di welfare. La recente legge regionale che disciplina le Società della salute (Sds), i consorzi volontari fra le Asl e i Comuni per l’esercizio in forma associata delle attività sanitarie e assistenziali, fa storcere la bocca, in particolare al mondo della cooperazione sociale. Le imprese sociali ritengono infatti che la nuova modalità organizzativa disegni per il non profit un ruolo ancillare rispetto agli attori pubblici. Un ruolo da consulente più che da co-protagonista della programmazione socio-sanitaria dei territori. Una regolamentazione, insomma, che di fatto fa compiere un passo indietro rispetto a quanto previsto inizialmente per le Società della salute ma anche rispetto alla legge regionale 41 del 2005 istitutiva del sistema integrato di interventi e servizi sociali. «Se torniamo con la memoria al punto di partenza del dibattito, ci accorgiamo che il punto di approdo è certamente deludente per le cooperative sociali. Basta rileggere le prime versioni del Piano sanitario, versioni che attribuivano alla cooperazione sociale un ruolo di partecipazione diretta, un ruolo addirittura costitutivo nelle Società della salute», osserva Anna Ferretti, presidente regionale di Federsolidarietà. Un’opinione condivisa da Angelo Migliarini, responsabile toscano di Legacoopsociali. «Sia ben chiaro», precisa, «salutiamo con favore la nascita delle Sds in quanto riportano i Comuni al centro della programmazione e della gestione delle politiche sociali e sanitarie. Solleviamo tuttavia dei dubbi sull’attuazione che è stata data ai principi di partecipazione istituzionale introdotti dalla legge sul sistema integrato: una legge che in realtà riconosce alla cooperazione sociale il ruolo di interlocutore necessario delle istituzioni».

Segnale di allontanamento
Le Società della salute, introdotte in via sperimentale con il Piano sanitario 2002-2004 e istituzionalizzate con la legge regionale 60 del 2008, prevedono a tal proposito due organi assembleari nei quali saranno rappresentati i soggetti del terzo settore: la Consulta del terzo settore e il Comitato di partecipazione. Quest’ultimo è composto da rappresentanti dell’associazionismo di tutela, di promozione e di sostegno attivo. Purché non siano «erogatori di prestazioni». Mentre infatti le cooperative sociali sono presenti nelle Consulte (sembra non in tutte), sono escluse invece dai Comitati di partecipazione. «Ci sembra un segnale di allontanamento rispetto ad una funzione davvero complementare che il privato sociale e la cooperazione potrebbero avere con l’ente pubblico. Se continuano ad interpretarci come categoria economica o corporazione, allora resteremo sempre subalterni», chiosa Lorenzo Terzani, coordinatore del polo toscano di Cgm. La normativa regionale assegna al Comitato compiti importanti: può presentare proposte sulla programmazione e il governo generale del sistema ed esprimere pareri sull’efficacia degli interventi, sulla bozza del Piano integrato di salute e sulla relazione annuale della Sds. Ha accesso, inoltre, ai dati epidemiologici e redige un proprio rapporto annuale sulla effettiva attuazione del Piano integrato di salute e sullo stato dei servizi. Motivo dell’esclusione delle cooperative sociali dal Comitato: il conflitto di interessi. Sarebbero al contempo attori della programmazione e gestori dei servizi. Un conflitto che le centrali cooperative definiscono invece «presunto».
Il punto, sottolineano, è che si corre il rischio di non utilizzare le antenne che il privato sociale ha sul territorio. «La partecipazione al Comitato non farebbe che migliorare la qualità delle prestazioni: si partirebbe dalle reali esigenze dei cittadini. Solo chi ha i sensori come la cooperazione può rilevarle», nota Ferretti di Federsolidarietà. Nel caso del consumo di alcol, ad esempio, le donne sfuggono alle rilevazioni ufficiali in quanto si rivolgono più al telefono amico del terzo settore che ai Sert.
C’è ad ogni modo una via d’uscita, secondo il mondo della cooperazione. «Se non si intende allargare la partecipazione alle imprese sociali o ai loro consorzi negli organismi assembleari, si potrebbe riconoscere un ruolo alle rappresentanze di secondo livello, alle centrali cooperative», suggerisce Migliarino di Legacoopsociali. Una soluzione che eviterebbe alla cooperazione di dire solo un sì o un no su un piano che non hanno contribuito a pieno a delineare.

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