La consueta ricerca annuale sulla fiducia dei consumatori nei confronti delle grandi imprese dovrebbe aver fatto venire un brivido per la schiena ai padroni del mondo arrivati al “sanatorio Davos” (la definizione, molto efficace, è di Danilo Taino, l’inviato del Corriere della Sera). Secondo quel “barometro”, misurato su un campione di opinion leader di ogni tendenza, il 75% degli intervistati ha detto di essere pessimista sui destini dei grandi marchi che hanno fatto girare l’economia (reale) del mondo. In questi mesi, infatti, la gigantesca bolla creata dall’economia di carta ha fatto un po’ da alibi: come se i problemi della grande industria fossero soprattutto nella crisi generata dalla finanza (meno ricchezza in mano ai consumatori, più difficoltà ad avere crediti da banche dissanguate dai derivati). Invece le cose non stanno esattamente così. E se ne è accorto con prontezza Barack Obama che ha affrontato la grande crisi dell’industria automobilistica americana, ribaltando le carte in tavola. Volete un sostegno governativo alle vostre imprese, ha detto ai Big 3 dell’auto americana? Ebbene, cambiate filosofia di prodotto. «Voglio essere assolutamente chiaro». ha detto. «Il nostro obiettivo non è di porre nuovi ostacoli ad un’industria già in grave difficoltà; è di aiutare i costruttori americani a prepararsi per il futuro? Dobbiamo avere il coraggio di cambiare». Obama non ha esitato a far sua la battaglia di uno dei più popolari esponenti del partito repubblicano, Arnold Schwarzenegger e ha così autorizzato la California e altri 13 Stati (tra cui New York) a fissare standard più rigidi sui gas di scarico delle auto. Certamente l’industria automobilistica americana è il simbolo di un’imprenditoria obsoleta, strafottente, che ha riempito quel Paese di immensi carrozzoni a quattro ruote quasi in sfregio a qualsiasi idea di risparmio energetico. Così, come ha scritto il grande Michael Moore, «ogni singolo dollaro che il Congresso dà a queste tre società sarà buttato nel cesso. Non c’è nulla che la dirigenza delle Tre Grandi potrà fare per convincere la gente ad uscire durante una recessione e andare a comprare le loro grandi, automobili scadenti ad alto consumo». Insomma, incarnano un modello industriale fuori dalla storia (per capirci: il limite di 15 km per un litro di benzina che Obama ha indicato per il 2020 è quello che già garantiscono quasi tutte le auto prodotte in Europa e in Giappone?).
Proprio lo stesso giorno in cui Obama lanciava il suo “diktat” ambientalista ai big dell’auto americana, Sergio Marchionne usciva allo scoperto dichiarando apertamente l’emergenza dell’auto italiana e del suo indotto: un settore che vale l’11% del Pil e circa un milione di addetti. Ci fosse un Michael Moore italiano, scriverebbe che la Fiat è certamente industria di interesse nazionale, ma che non si può soffocare ulteriormente un Paese di auto (il rapporto di 60 auto per 100 abitanti è il più alto d’Europa). E che se si vuole il sostegno pubblico bisogna pensare anche a un modello industriale che venga incontro ad interessi collettivi e delle generazioni future. La responsabilità sociale è avere questo coraggio. Altrimenti sono solo belle parole.
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