Formazione
Ieri un ex, oggi a Exodus
Una trasmissione tv lo ha invitato come esempio di carnefice davanti a una platea di vittime. Ma lui non ci sta: «Io volevo pagare le mie colpe, sinceramente.»
Vittima o carnefice? «Sono nato e cresciuto impregnato nella cultura cattolica dei miei genitori; dunque sono stato strutturato nell?idea del bene. Poi mi sono sentito improvvisamente adulto nella calda estate del ?68: mi sono affacciato sul mondo proprio mentre questo era in rivoluzione e cambiamento. E si potrebbe dire che questo mondo di utopie mi abbia trascinato con sé, portandomi verso ideali molto alti, ma anche ai livelli più bassi che possa toccare un uomo». Chi parla – e lo fa con una certa fatica – è Maurizio Rotaris, quarantaquattro anni, ex anarchico, ex tossicomane, ex di Prima Linea. Una vita da ex, vissuta con intensità dalle comuni al carcere, che Maurizio ha raccontato in un libro inedito e in attesa di un editore – ?Passeggiata nel delirio? -, che è stato recentemente premiato con il ?Premio Arcangela Todaro-Faranda? per la narrativa italiana. Un libro che forse è il racconto di una catarsi, che dalla droga e dalla lotta armata contro il sistema si è risolta in un presente di riparazione sociale.
Maurizio Rotaris adesso lavora presso lo sportello ?Sos Centrale? della Comunità Exodus di recupero dei tossicodipendenti, comunità gestita da don Antonio Mazzi. All?inizio degli Anni 80 era nel carcere di massima sicurezza di Badu e? Carros, in Sardegna, da cui uscì a seguito della Legge Vassalli, quella che Maurizio definisce «un modello importante che molti ci invidiano. Io ero sinceramente convinto di dover pagare, perché era giusto così. Però, con tutto il rispetto per le famiglie delle vittime della violenza di allora, è anche giusto che noi prigionieri politici – in carcere ce ne sono ancora 207, mentre i ?capi? sono in semilibertà – si abbia la possibilità di rivivere il passato, portando una testimonianza concreta dei cambiamenti avvenuti».
E il lavoro di rivisitazione Maurizio Rotaris l?ha compiuto proprio attraverso questa ?Passeggiata?, il libro a cui hanno voluto porre una propria introduzione sia lo psichiatra Vittorino Andreoli che don Mazzi, in un certo senso il mentore della riabilitazione sociale di Maurizio. «Per favore, però, evitiamo il buonismo dell?uomo che si ravvede», si fa serio. «Io mi sono sempre considerato l?ultimo, e in questo ruolo ho smesso di comunicare con il mondo che mi circondava; anzi, ho iniziato a cercare di fare danni a questo mondo. Più che giusto, mi sembrava dunque naturale che riprendessi a sentirmi parte di una società partendo proprio dagli ultimi». Un concetto che l?ex terrorista ha ripetuto durante una trasmissione televisiva Fininvest della scorsa settimana, dove, nella ?finzione? dell?etere, Maurizio era stato invitato come il ?carnefice? (letteralmente: ?Colui che in quegli anni sparò?) che doveva rendere conto delle sue colpe davanti a una giuria di ?vittime?, tra cui anche la figlia dello statista Aldo Moro.
Vittima o carnefice del mondo, dunque? «Un uomo, direi, con il suo percorso di vita, che si può giudicare e condannare – ed è stato fatto -, ma non sopprimere. Non è sufficiente?». Maurizio Rotaris forse non è all?alba, ma sta certo vivendo le prime ore della sua nuova vita. La notte delle droghe e del terrorismo sembra essere ormai passata: l?uomo minuto e dai grandi occhi azzurri, nella realtà come nel libro, parla della persona che ha vissuto la notte trascorsa in terza persona. Vede il Maurizio che, circondato dai troppi doveri imposti dai genitori e dalla scuola, è uscito di casa a 15 anni da fuori, lo giudica – senza neanche troppa bontà -, ma ne riconosce la validità di un percorso più storico che umano. «Quell?adolescente era troppo sensibile ai cambiamenti che sentiva avvenire attorno a sé: era un mondo fantastico per lui, fatto delle riunioni della Fgci, della frequentazione con un vecchio partigiano alcolizzato, dei gruppi anarchici di Valpreda; ma anche di hascisc, di acidi, di allucinogeni. Poi lo scontro con la realtà e l?illusione che crolla».
Quel che segue, nel libro e nella realtà, è un delirio che Maurizio rivive in modo analitico: il ricovero al reparto neuropsichiatrico di Niguarda, a Milano, il primo arresto, le violenze subite in carcere, Amsterdam, il primo impatto con l?eroina, la vita prima da tossico e poi da spacciatore, il carcere di nuovo, a San Vittore. «Quel ragazzo si sentiva di valere meno di un pezzo di merda: si racchiuse nella sua cella e pensò di uccidersi. Ma poi – sorride per la prima volta dall?inizio dell?intervista – fortunatamente ci ripensò». E per quel ragazzo ci fu la reazione, una difesa del suo essere che si tramutò in un attacco. «Eh sì, quel ragazzo pensò: ?Mi avete fatto male, ma adesso che sono adulto ve la faccio pagare. Vi faccio del male io?. Rabbia e odio erano l?aria che respirava».
Gli anni persi, per quel ragazzo, erano stati davvero troppi. Ma nel 1976 il tempo ricominciò a girare per lui, in modo vorticoso e trascinante, sempre scandito più dall?odio che dalle circostanze politiche: l?amore per le armi e il giustizialismo popolare erano sempre più diffusi. «Anche il suo ingresso nell?organizzazione era meno ideologico e più strutturato nella rabbia. D?altronde, dentro Prima Linea la violenza che producevamo era costituzionalmente ?soggettiva?: le nostre azioni non erano giustificate né realmente richieste dal contesto storico. Mi viene da fare un paragone probabilmente un po? impopolare – ammicca Maurizio – con il Che Guevara: anche le sue azioni armate non erano certo richieste dalla situazione, ma originavano dalla sua linea d?azione rivoluzionaria».
Anni duri, anni di piombo, durante i quali Maurizio partecipò a poche azioni dirette: si occupava essenzialmente di raccogliere informazioni e pianificare le operazioni. Ma poi, a un certo momento, la rabbia distruttiva finisce: «Era diventata un mostro incontrollabile, si stava rivolgendo su se stessa, arrivando a minare quel senso di giustizia e di bene che le aveva dato origine. Ho rinunciato all?odio consapevolmente. E mi sono consegnato nelle mani della giustizia, quella istituzionale, quella che avevo sempre combattuto. D?altronde sono sempre stato, in tutto questo percorso, un cattolico praticante: sapevo che era giunto il momento di pagare». Così conclude Maurizio Rotaris. E per lui, e per gli altri come lui di adesso e di allora, la domanda è senza risposta: vittima o carnefice?
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