Welfare
E Lanzada festeggiòbil suo poeta redento
autobiografie Il caso di «Terra fertile» di Mauro Parolini
di Aldo Bonomi
A lla presentazione non ci sono né Vittorio Sgarbi né critici e recensori delle pagine culturali del Corriere della Sera per dargli il benvenuto tra coloro che lavorano comunicando, che scavano le parole per trovare senso.
Non so se basterà a Mauro Parolini. Io, sociologo valtellinese sfigato come lui in gioventù, gli do il benvenuto tra quelli che hanno fatto il salto problematico dalla storia orale, dal racconto di paese, alla scrittura, alla poesia che contamina e fa viaggiare il sentire. Non so nemmeno se gli piacerà essere accostato a Pierre Rivière, il malato, il reietto scelto da Michel Foucault come uno dei tanti per le sue analisi sulla follia, sulla clinica, sul sorvegliare e punire, sulla biopolitica. In quel piccolo oratorio prende parola uno di Vetto, frazione di Lanzada, che ha visto morire il padre divorato dalla cancrena che lo costringeva in carrozzella, la madre faticare tra casa, prati ove lavorare il fieno, bosco e orto, con un figlio perso dopo sei mesi e una figlia morta a cinquant’anni.
Con lui, il più piccolo della famiglia, che passava da momenti di depressione a momenti esuberanti per cui scrive «sono stato diagnosticato schizofrenico». Quello che nelle nostre comunità locali, poco abituate al political correct, si direbbe un matto poeta o un poeta matto. Abituati come siamo a classificare così quelli che si sottraggono alla dittatura operosa dello stereotipo del valtellinese lavoratore, risparmioso, silente e dedito alla proprie faccende. A cui Mauro si rivolge chiamandoci «scettici giudicanti». Supplicando poeticamente: «Assolvete i miei peccaminosi errori non imprimetemi in una condanna mai tardi per salvare la faccia ridatemi la voglia di vivere». Sempre con la poesia ci racconta di come ebbro e invasato dalla Signora Depressione «baciai le tue labbra in un’attrazione erotica ci perdemmo». Poi la cura. E lui, diagnosticato schizofrenico, scrive che oggi sta bene. Da dieci anni non ha più ricoveri, va nel bosco a tagliare e raccogliere legna, fa passeggiate, incontra gli amici, scrive poesie e racconti. Alla presentazione del suo libro c’è anche Enrico del Barba della Navicella, l’associazione pro salute mentale che opera in Valtellina e in Valchiavenna. È una onlus che sopravvive con 40mila euro l’anno di progetti pubblici e donazioni private.
Lì, dopo le cure, Mauro ha ripreso parola fino a far poesia. Per questo oltre al sindaco e ai “sani”, in quell’oratorio di Lanzada si è celebrata una festa con i tanti della Valmalenco presi da quel mal sottile che prende la mente all’insegna del “si può fare”. Si può tornare dall’abisso del disagio psichico che rende muti e invisibili ai più. Come ci sono invisibili, i tanti suicidi che avvengono in valle e che risolviamo volgendo lo sguardo altrove. Il ritorno alla comunità originaria di Mauro è passato dal Cps, dalla Navicella, sino a farsi poesia solo perché la società tutta non ha voltato lo sguardo altrove. Non sembri blasfemo. Domenica, Lanzada e il suo oratorio mi sono sembrate la città di Gerasa ove nel Vangelo di Marco si racconta dell’incontro di Gesù con un folle invasato. Il cardinal Martini, commentando l’episodio evangelico, ci fa notare che il folle di Gerasa quando Gesù gli domanda il suo nome risponde: «Il mio nome è Legione perché siamo tanti». L’uomo di Gerasa non ha nome perché ha il nome collettivo della sofferenza e dell’esclusione. Sia felice la comunità di Lanzada. Il prezzo del reinserimento dell’uomo chiamato Legione di Lanzada è stato un libro di poesie e di racconti di Mauro Parolini che è tornato tra noi.
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