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Umanitari sotto tiro.bVi spiego perché

Dall'uccisione di monsignor Colombo al rapimento bdelle duesuore italiane. «Ai fondamentalisti dà fastidio bchi testimonia valori differenti», spiega il presule

di Emanuela Citterio

L e due suore italiane rapite. I pirati che allungano le loro scorribande fino al golfo di Aden e lungo i tragitti delle navi verso il canale di Suez. Al-Qaeda, che allarga sempre di più le sue reti. Questa è la Somalia di oggi, armata, in guerra da 18 anni. Di questa e altre “Somalie” è testimone Giorgio Bertin, amministratore apostolico di Mogadiscio e vescovo di Gibuti, il minuscolo, ma strategico staterello al confine con Etiopia, Eritrea e Somalia.
Vita: Le suore rapite in Kenya arrivano dopo una lunga serie di episodi in cui in Somalia molti religiosi hanno anche perso la vita…
Giorgio Bertin: Sì, sono stato testimone dell’uccisione del vescovo di Mogadiscio, Salvatore Colombo, nell’89. Poi da Gibuti ho seguito la testimonianza silenziosa della laica italiana Annalena Tonelli, uccisa nel 2003. Ho ammirato la perseveranza delle ultime quattro religiose rimaste in Somalia, che hanno vissuto per trent’anni, anche sotto le bombe, con la popolazione somala. Fino all’uccisione due anni fa di suor Leonella Sgorbati.
Vita: Perché presenze discrete come quelle che ha citato danno fastidio?
Bertin: Ad alcuni elementi fondamentalisti dà fastidio che valori differenti dai propri creino un’apertura mentale che allontani da un’interpretazione integralista dell’Islam. In molti hanno perso la vita in questi anni in Somalia. Persone che curavano ammalati e prestavano soccorso ai bisognosi, donne e uomini che credevano nella convivenza e nel dialogo. Non parlo solo di cristiani, ma anche di musulmani che ho conosciuto.
Vita: Ci sono ancora cristiani in Somalia?
Bertin: Pochissimi. E minacciati, non dai somali che li conoscono, ma da nuovi piccoli gruppuscoli imbevuti di ideologia islamica, i quali – mancando di fatto un’autorità statale – hanno buon gioco nel fomentare le persone. Questi gruppi non conoscono i cristiani, non hanno mai vissuto con loro, sono stati educati a pensare che siano i nemici da combattere.
Vita: È sempre stato così?
Bertin: Assolutamente no. Avevano imparato a vivere abbastanza bene insieme, i somali musulmani con i cristiani. Quando prendevo l’autobus, alla fine degli anni 80, c’era sempre qualcuno che si alzava per darmi il posto. Ma dopo 18 anni di guerra chiunque può fare quello che vuole. L’anarchia è peggio della dittatura. Con la dittatura si sa contro chi ci si deve difendere, l’anarchia lascia terreno per qualunque tipo di fondamentalismo.
Vita: I nuovi gruppi fondamentalisti che operano in Somalia sono legati ad al-Qaeda?
Bertin: Sempre di più. Si dice che la Somalia sia in mano ai clan, negli ultimi tempi mi sembra invece che anche loro abbiano perso il controllo della situazione. Mentre sono questi nuovi gruppi fondamentalisti, non più costituiti necessariamente su base etnica, ad aver acquisito molto potere.
Vita: È vero che anche Caritas Somalia, che aveva ripreso a operare due anni fa, ha chiuso i progetti?
Bertin: Continueremo per un anno a sostenere il piccolo ospedale di Baidoa, nel Sud, ma abbiamo affidato il progetto a un’altra organizzazione, Sos Kinderdorf. Anche loro però hanno problemi, hanno dovuto chiudere il Villaggio Sos di Mogadiscio che ospitava duecento bambini, e alcuni padiglioni dell’ospedale che era l’unico funzionante della città. È un brutto momento. Ora sto cercando di fare qualcosa a Gibuti, a partire dalle scuole come luoghi dove educare alla tolleranza.
Vita: Perché la scuola?
Bertin: Le scuole cattoliche a Gibuti sono molto ricercate, anche se il 99% della popolazione è musulmana. Sanno che il nostro obiettivo non è solo passare nozioni ma educare la persona, e sanno che rispettiamo la loro fede. Sono stati i missionari, nel 1885, a creare i primi istituti. La scuola statale nasce dopo, e dopo ancora altre scuole private, alcune delle quali sono molto care. Noi non vorremmo aumentare i costi delle nostre perché ci piacerebbe fossero accessibili anche ai figli delle famiglie più bisognose. Per insegnare la tolleranza si parte dall’educazione dei giovani.


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