Non profit

Co-housing: perchébin Italia stenta a partire

ABITARE Il nuovo vicinato arricchirebbe il capitale sociale. Ma...

di Chiara Cantoni

H a a che fare con una scelta di condivisione, ma non chiamatelo condominio solidale né ecovillaggio. Il termine danese, bofaelleskaber , significa “comunità vivente”, ma l’Inghilterra lo ha sdoganato come “cohousing”, una particolare forma dell’abitare in cui alloggi privati e servizi comuni (dalla cucina alla cura dei bambini, alla gestione del verde) favoriscono la socialità fra inquilini, salvaguardandone però la privacy. Un felice compromesso fra l’anonimato del condominio tradizionale e la radicalità di una comune. Scegliersi i vicini e condividere con loro alcuni spazi e una parte del quotidiano, decidendo insieme modalità e grado di coinvolgimento: la formula è tutta qui.
Nel Nord Europa, dov’è esploso negli anni 70, ma anche Oltreoceano, rappresenta una realtà consolidata, una risposta efficace alla solitudine delle città, alla dissoluzione del tessuto sociale e della rete parentale tradizionale. In Italia, invece, è poco più che un principio ispiratore, un progetto sulla carta in divenire che, se da un lato esercita l’attrattiva della novità (anche economica), dall’altro fatica a divenire mentalità acquisita. Ne è convinta Faustina Fabbri , presidente dell’Associazione di promozione sociale CoHabitando, da due anni attiva nella diffusione del concetto di cohousing. «La mancanza di una norma giuridica in grado di definire, declinando operativamente, questa forma dell’abitare presta il fianco all’interpretazione, quindi alla ricchezza ma anche alla molteplicità di visioni progettuali non sempre coerenti». Numerose le formule di vicinato solidale esplose anche in Italia, «ma a oggi una vera e propria realtà di cohousing ancora non c’è».
Duplice il binario che impegna CoHabitando: «Lavorare a una proposta di legge che definisca alcune linee guida e collaborare, tramite cinque delegazioni regionali, con le amministrazioni pubbliche per individuare aree dismesse da destinare a forme di cohousing». Progetti allo studio, che consentano di ridurre i costi iniziali dell’investimento e di sciogliere eventuali nodi legati ad aspetti patrimoniali, al diritto di famiglia, alla formazione di gruppi eterogenei di cohouser. «Un percorso ancora lungo, ma che può dar luogo a un modello di integrazione nel sociale che fa della relazione stretta fra inquilini il suo fulcro propositivo, nella condivisione di problemi legati per esempio alla gestione di attività reddituali occasionali o all’assistenza di un vicino malato. Il tutto, messo in rete coi servizi socio-sanitari del territorio, apre scenari davvero articolati». In una parola, cohousing come moltiplicatore di capitale sociale.


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