Cultura

se vuoi capire l’Indiabfai come me, arrenditi

inviati speciali Giancarlo De Cataldo alle prese con il Paese più misterioso

di Redazione

L’autore di «Romanzo criminale» ha cambiato radicalmente scenario. E ha tentato una scommessa: raccontare
un Paese che non si lascia “catturare”. Ecco il suo bilancio. Controcorrente e senza pretese A volte il viaggio può rivelarsi un percorso a cui incosciamente si è chiamati. Come nel caso del libro di Giancarlo De Cataldo, L’India, l’elefante e me . Una sorta di diario di viaggio in cui lo scrittore di Romanzo criminale racconta l’India ma anche molto di più. L’epifania arriva a pagina 141, quando scrive della figlia Francesca, nata con un handicap gravissimo e morta a soli 14 anni nel 2004. La penna di De Cataldo rilascia un Paese ricco di percorsi, ferite (come ha atrocemente dimostrato anche la strage di Mumbai del 26 novembre) e contraddizioni come può esserlo solo la natura umana.
Vita: Cos’ha l’India più di un altro Paese?
Giancarlo De Cataldo: Mi ha detto Ashok Vajpey, il poeta che ho intervistato a New Delhi: «Dietro ogni India c’è sempre un’altra India che non t’immagini». Gli indiani, così aperti in apparenza e misteriosi nel loro cuore antico (proprio come tanti meridionali di casa nostra, me compreso) sono estremamente orgogliosi della propria complessità. In un mondo che cerca la semplificazione a ogni costo, la loro attenzione alla complessità, la loro fede nella “conoscenza” (o consapevolezza: traduciamo così “awareness”, una parola che ho sentito pronunciare molto spesso in India) sono una boccata d’ossigeno salutare. Questa è la vera contraddizione dell’India, secondo me: l’inafferrabilità della contraddizione stessa.
Vita: Quale è stata la sorpresa maggiore?
De Cataldo: Siamo divisi fra due opposte immagini dell’India: da un lato la più grande democrazia del mondo, con un’enorme massa elettorale e la crescita del Pil al 9%, dall’altro il regno della tradizione, dell’induismo immutabile, delle vacche sacre e dei santoni. Il pregiudizio è pensare che non possano convivere, pur fra mille lacerazioni. Il pregiudizio è credere, con fin troppo ottimismo, che una civiltà capace di metabolizzare Buddha, l’Islam, Cristo sia condannata a cedere al neoliberismo. E, in effetti, non vi ha ancora ceduto: la scommessa indiana sta nella compatibilità fra sviluppo, progresso, democrazia e tradizione. Un altro pregiudizio è quello sulla povertà. Certo, esiste, e si vede, tangibilmente, e spinge tanti alla disperazione. Ma è il prodotto di una storia e di una cultura uniche. Se chiedi a un indiano: perché tanti mendicanti? Ti risponde: perché c’è tanta povertà. E se chiedi: perché c’è tanta povertà, ridendo ti spiega: perché ci sono tanti mendicanti! Il pregiudizio dei pregiudizi è pretendere di ridurre al nostro metro unitario, occidentale, un complesso storico, culturale, religioso irriducibile.
Vita: Ad un certo punto lei parla di un centro di assistenza per bambini con disagi molto gravi. Come viene affrontata la disabilità in India?
De Cataldo: L’assistenza, mi dicevano, è disastrosa, con punte di eccellenza. Non ho elementi per verificare. Le suore sono caritatevoli, fanno quello che possono. Ma quando una madre o un padre abbandonano una creatura indifesa e disabile non lo fanno, come accade a volte da noi, perché incapaci di sopportare il dolore, o per vergogna sociale, ma perché qualcosa nel profondo del loro essere “risuona” nel Samsara, il ciclo della reincarnazione. La prossima vita, credono, sarà migliore. Non c’è mai disprezzo, paura, ritrosia per la disabilità. Anche dove c’è stato abbandono. Agli occhi di un occidentale tutto questo è sinonimo di rassegnazione, superficialità, indifferenza, crudeltà. Per loro le cose non stanno così.
Vita: Un amico che l’ha introdotta a questo viaggio le dice: «Arrenditi all’India. Non c’è altro modo». Pensa di esserci riuscito?
De Cataldo: A un certo punto sì. L’amico in questione ha letto il libro. «Non credevo che mi avresti preso così sul serio», mi ha detto. «Dopotutto, ti sei comportato da bravo turista. Non hai preteso di spiegare a me, che la frequento da trent’anni, che cosa sia l’India». Lo considero un complimento. Questo libro parla molto più di me che del mio sguardo su un mondo così diverso da me.
Vita: Si può traslare questo concetto nel suo rapporto con Francesca? Si è mai arreso alla sua condizione di padre di una figlia imperfetta?
De Cataldo: No. L’ho vissuta con rabbia, con violenza anche, questa condizione. Sono occidentale. Non ero ancora stato in India. Sono pieno di sensi di colpa. Non me ne libererò mai. Ma se l’esperienza che ho vissuto può aiutare qualcun altro, allora è giusto parlarne, senza ritirarsi.
Vita: Scrive: «Mi sto perdendo perché non sono disposto a mettermi in gioco, a prendermi una vacanza da me stesso, dalle incrostazioni della mia parte razionale». Al ritorno dall’India, la sua anima è più libera?
De Cataldo: Assolutamente sì. Da quando ho scritto Romanzo criminale mi chiedono incessantemente due cose: perché un magistrato scrive? È giusto raccontare il Male? Dopo l’India mi è diventato improvvisamente chiaro che tutte le teorizzazioni precedenti, i fiumi di parole spesi per motivare, giustificare, confondere si potevano risolvere con due battute: un magistrato scrive perché sa scrivere. È giusto raccontare il Male? Sì. L’illuminazione la devo ai miei colloqui indiani: perché la cucina indiana è così speziata? Perché ci sono tante spezie da noi! Perché tanti mestieri affidati a tanta gente? Perché c’è tanta gente che deve fare tanti mestieri, e via dicendo… Ora, non so se tutto questo aiuti davvero a diventare esseri umani migliori di quelli che si è nel quotidiano, ma sicuramente ti spinge a far tuo un modo di ragionare “altro”. Quanto meno a prendere atto che esiste, diamine!
Vita: Quello che si legge a pagina 50 del suo libro è spiazzante… «Ad un certo punto avverto la presenza di Dio, io occidentale e laico, ironico e distaccato, sento Dio…». Ma anche qui l’epifania non si esplica. Perché?
De Cataldo: Perché non si può spiegare. Si deve vivere. Non credo che sia necessario andare così lontano, l’epifania può aggredirti anche nel salotto di casa. A me, semplicemente, è successo a Jaipur.
Vita: La sente ancora la presenza di Dio? E se sì, dove e quando?
De Cataldo: Dio, per gli indiani, è un’unità che pervade ogni sostanza materiale e immateriale. È presente nel ramo dell’albero così come nella statuetta di Aruman, il dio-scimmia. Mi sono portato in India un libro di Leonard Cohen, Belli e Perdenti , che parte da una domanda: una certa santa indiana, realmente esistita, era o no una vera santa? In altri termini, quanto di divino c’è nel crocefisso di legno che vendiamo come souvenir all’uscita di una chiesa? Se si aderisce a una visione meno dogmatica e più compassionevole della religiosità, si può convivere con un’idea del divino che non si traduce necessariamente in una somma di divieti, prescrizioni, limiti, e che non apre necessariamente la via alle Crociate o alla Jihad.
Vita: Nella sua casa, oltre che con sua moglie e suo figlio, vive anche con le consuocere. Perché ha fatto questa scelta?
De Cataldo: È una legge di natura. Assisti chi è più debole e ha più bisogno di te. Non ho mai preso in considerazione soluzioni alternative, nemmeno per un istante.
Vita: Un’ultima domanda: due o tre idee per vivere meglio «questo tempo sbandato», come direbbe Ivano Fossati, ce le ha in mente?
De Cataldo: Uno: diffidate di chi vi offre soluzioni facili e ricette sbrigative. Due: (questa rivolta agli italiani in particolare) smettetela di odiare i giovani. State odiando voi stessi.

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