Non profit

Una guerra che ci riguarda

Uno stralcio della straordinaria 'intervista di Vita magazine a una dei più grandi esperti dell'area, l'inviata del quotidiano belga Le Soir Colette Breck

di Joshua Massarenti

Quello che leggete è l’incipit della lucidissima intervista che compare sul numero di Vita Magazine in edica da oggi alla giornalista Colette Braeckman.

In questo stesso numero compare anche  l’appello che il nostro settimanale rivolge alla politica e alla società civile perchè prendano iniziative concrete: «Pensiamo sia scandaloso e inaccettabile restare in silenzio. Il disastro umanitario che si sta consumando in Congo ci riguarda. Il diritto ad esistere di quel popolo è una cosa che dipende anche dalla capacità di iniziativa politica e morale del nostro Paese, della società civile e di chi sta al governo in Italia e in Europa. L’indifferenza non è ammessa. Perché è collusione».

 

Centinaia di morti. 250mila sfollati sballottati tra il fuoco delle armi e la fame. Gli scontri che oppongono nel Nord Kivu i ribelli del generale Laurent Nkunda e l’esercito congolese non si fermano. Anzi. Tra esazioni, omicidi e stupri, le popolazioni civili sono nuovamente in preda ai riti più macabri della solita guerra che devasta la provincia orientale della Repubblica democratica del Congo. Una terra maledetta dai tesori naturali che custodisce e per questo continuamente soggetta ai mille appetiti dei Paesi confinanti, tra cui il Rwanda. Di fronte ai rischi di una regionalizzazione del conflitto (l’Angola è pronta ad aiutare il presidente congolese Joseph Kabila), la comunità internazionale cerca di scongiurare l’ennesimo fallimento militare della Monuc, la missione Onu in Congo. Intanto nel Nord Kivu si continua a morire. Perché? Lo abbiamo chiesto a Colette Braeckman, giornalista e inviata speciale del quotidiano belga Le Soir. Del Congo e dell’Africa dei Grandi Laghi, Braeckman sa ormai tutto.


Nonostante l’annuncio di un cessate il fuoco unilaterale, il generale Nkunda continua a fare il bello e il cattivo tempo nel Nord Kivu. Perché?
 Come qualsiasi altro gruppo ribelle armato, il generale Nkunda sfrutta una situazione a lui favorevole sul piano politico-militare per rafforzare i suoi poteri nel momento di negoziare con il governo congolese.

Peccato però che Kinshasa non voglia scendere a patti con lui…
La comunità internazionale sta esercitando una forte pressione per spingere i protagonisti a negoziare. Sullo sfondo c’è un problema giuridico: quello congolese è un governo democraticamente eletto, mentre Nkunda è un ribelle. Se Kinshasa non vuole scendere a patti è perché ritiene Nkunda un criminale. E criminale il leader del Cndp lo è. Dal 1996 in poi, ha partecipato a tutta a una serie di attacchi in cui sono stati perpetrati crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Il suo posto è quindi alla Corte penale internazionale (Cpi). Purtroppo, la situazione è molto complessa. Intanto, è necessario ricordare che un accordo di pace esiste già. È stato firmato dallo stesso Nkunda e avvalorato dalla Comunità internazionale nel gennaio 2008 a Goma. In quell’occasione, il generale aveva accettato un patto di non aggressione armata e la possibilità di reintegrare l’esercito congolese in cambio della promessa da parte di Kinshasa e della comunità internazionale di disarmare i ribelli hutu delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr) per porre fine alle minacce che pesavano sulla comunità tutsi del Congo. Ora, le Fdlr non sono mai state disarmate. E oggi Nkunda giustifica le sue azioni con la necessità di difendere la minoranza tutsi.

 

in foto: L’inviato Onu in Congo Obasanjo (a sx) con il generale ribelle Nkuda


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