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L’affetto non si cambia

film Ispirata a una storia vera l'ultima pellicola di Eastwood

di Maurizio Regosa

C lassico lo è davvero. Per raccontare una storia vera avvenuta nella Los Angeles della fine degli anni 20, Clint Eastwood sceglie la messa in scena più tradizionale. Changeling si apre con un movimento di macchina dall’alto verso il basso: piazzata su di una gru la macchina passa dal totale della città all’inquadratura della casetta dove Christine Collins vive con suo figlio. Il più intramontabile dei richiami: sottolinea il centro dell’attenzione e allo stesso tempo mette lo spettatore sul chi va là. È un indizio: qui sta per accadere qualcosa. Come ovviamente, non passano molti minuti, effettivamente succede. Il piccolo Walter viene rapito. Svolto il prologo, il film può passare al cuore dell’azione. Narrando le prevedibili reazioni di Christine (l’ansia, la paura, l’attesa) fino a che la polizia le riconsegna un piccolo estraneo al posto di suo figlio ( Changeling, appunto, scambio). Cercando di persuaderla che è Walter e opponendo alle sue riserve il più assurdo e ottuso dei comportamenti. Per farla tacere i poliziotti (a loro volta sulla graticola per la corruzione e la violenza) arrivano a imprigionarla in un ospedale psichiatrico. Che aggiungere? Che si arriva a un processo – complice un reverendo che appoggia Christine; che si riesce a ottenere la (giusta) condanna dei prepotenti? Che la forza dell’individuo, se è all’interno della comunità, riesce a vincerla sull’arroganza del potere? Che si scopre, grazie a uno dei pochi poliziotti non corrotti, che un pazzo ha ucciso molti bambini, fra cui forse Walter?
Detto ciò – preso atto della bontà delle intenzioni, dell’attualità della problematica (l’ospedale psichiatrico, Guantanamo ante litteram?) – il film di Eastwood non pare del tutto riuscito. La sceneggiatura anzitutto. J. Michael Straczynski ha ritrovato il procedimento contro la polizia locale e da lì è partito per il suo racconto, concentrandosi sugli abusi, sulle forzature del diritto e la violenza, pochissimo scavando. È rimasto in superficie. E il regista per forza l’ha seguito. Per lo più controllando una messa in scena come si diceva parecchio classica (nella quale però non mancano cadute di stile, come la sequenza cruenta e fuori posto della mattanza dei bambini: non aggiunge nulla, semmai devìa). Per fortuna Angelina Jolie è una mamma perfetta. Non sbaglia un’espressione, uno sguardo. E la tenuta complessiva è merito tutto suo: senza di lei il film sarebbe soltanto un melodrammone orchestrato da uno psicopatico da manuale e assecondato da poliziotti che sono delle stupide macchiette.


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