Welfare
A noi la vita bnon fa paura
Immigrati Nascono sempre più bambini stranieri. Un viaggio negli ospedali milanesi
di Redazione

A ll’estrazione della tombola sui luoghi comuni è uscito «Italia: Paese di vecchi«. Un occhio alle statistiche, però, pare confermare: l’italiano non fa più figli. I saltimbanchi improvvisano acrobazie per non incupire gli animi. La platea scuote il capo. Cose già viste trent’anni fa, mormora. Il direttore di sala si agita e fa capricci coi maghi. Niente più conigli dai cilindri. Vuole bimbi dallo Stivale. Nel Paese dei balocchi non si gioca più.
Il vento accompagna le idee sulla via del ritorno, la più brillante porta in ospedale. Per curare un problema, del resto, non vi sono che due soluzioni: lo stregone o un dottore.
I neonati esistono
Bussiamo alla Fondazione Ospedale Maggiore Policlinico Mangiagalli e Regina Elena. Chiediamo se di bambini ne esistano ancora. Il dottor Gabriele Ferraris ci fa entrare. Di qui in avanti è un susseguirsi di scoperte, ed incontri. Di neonati, innanzitutto, ne esistono. Sospiro di sollievo. A metterli al mondo, però, sono per lo più immigrati. Un tale scollamento sociale nella visione del futuro, e della vita, obbliga a un confronto. Il più immediato è andare alla scoperta dell’altro. Di colui che, con implicazioni varie, viene comunque considerato il diverso.
Chi è a caccia dell’esotico viene presto deluso. Waidyasekera Harshani, Fattahi Mohamed, Abraham e Tina o Jepp e Rosie Mangalis non sono macchiette folcloristiche. Razze diverse, religioni diverse, culture diverse, certo. Ma modi di fare, abiti e costumi passano, senza dare nell’occhio, al collaudo occidentale. Anzi, semmai finiscono per esserne fedelissimo spot. Cellulari, videofonini e videocamere immortalano attimi da inviare a nonni quanto tecnologici, poi, è un mistero. Sono scene comuni, in ospedale, queste e rendono i presunti diversi comicamente simili al nostro buffo qui ed ora. Non è l’abito che fa il monaco, insomma, ma dovrebbero saperlo tutti del resto. Anche l’ambito professionale non sembra elemento capace di marcare differenze sostanziali tra noi e loro. Gli uomini lavorano e costruiscono, con un piano elementare quanto solido, le basi per realizzare il sogno di una vita. Un tetto in affitto e quattro lire messe da parte sono l’investimento sul bene più immobile che esista. Una famiglia. Le donne non sempre seguono il compagno immediatamente. La sofferenza dell’attesa nasconde però un premio che vale l’intera posta. Il loro arrivo corrisponde ad un matrimonio, e ai figli. All’apparenza trovare spigoli vivi o situazioni che ostino alla costruzione di un nucleo extracomunitario in Italia non è così facile. Nemmeno stuzzicarli su tematiche religiose o culturali accende una fiamma. I crocifissi presenti alla Mangiagalli, pochi per la verità, non creano problemi. Chi professa altra fede candidamente spiega di sapersi comportare da ospite. Così come la presenza di ginecologi maschi non è motivo di imbarazzo. Paese che vai, usanze che trovi. Sanno anche questa. Sorprendersi a constatare che, in fondo, la differenza più evidente sia quella somatica fa uno strano effetto. Di colpo ci si scopre, a essere benevoli, retrogradi.
Più italiani di noi
«Come giudichi sarai giudicato, e come agisci, così si agirà anche con te» (Lc 6,37). Non è un remake di Pulp Fiction e non sono le prime parole di Samuel L. Jackson. È semplicemente la normale reazione di chi, dopo aver pazientemente ascoltato, ti spiega la sua versione dei fatti.
Osservare la fotografia spaventosamente univoca che scattano gli extracomunitari è a tratti una vera e propria lezione. Sorge il dubbio che siano più italiani di te. Partono delicatamente, come a prendere le misure per non metterti subito a disagio. Ti guardano negli occhi sorridendo mentre raccontano che per loro la famiglia è una benedizione, i figli il completamento e il senso della vita. Quando credi di poterti rilassare, però, ecco che pungono. Jepp e Rosie , filippini, hanno un bimbo e una bimba. «Gli italiani non hanno pazienza per tenere i figli, poi non hanno tempo. Conosciamo tanti italiani che hanno adottato bambini, però li adottano quando hanno tre anni, così sono più gestibili. Vanno subito alla scuola materna e i genitori possono uscire e lavorare con meno problemi». È poi il turno di Abraham e Tina , nigeriani, al terzo bimbo: «Certo, per avere figli bisogna fare sacrifici, ma noi africani siamo abituati alla vita dura. Apri gli occhi». Harshani , dello Sri Lanka, è al primo figlio, ma quanto prima ne vuole un altro per non lasciare il piccolo Pahasara da solo. «Le mamme italiane hanno meno contatto fisico con i figli. Nell’allattamento, per esempio, smettono in fretta mentre la nostra cultura ci porta ad allattare anche per tre o quattro anni». Per ultimo parliamo con Mohamed , marocchino, che mentre abbraccia paternamente il neonato racconta il suo punto di vista e la sua storia particolare. «Io e mia moglie siamo al quinto figlio. Facciamo molti sacrifici ma siamo felici. Se avessimo pensato solo ai soldi avremmo qualche euro in più ma tanta gioia in meno. Non siamo amanti dei ristoranti. Gli italiani hanno un altro stile di vita». La moglie di Mohamed, convertita all’islamismo, è italiana e i suoi genitori non hanno mai accettato questa unione. Continuano a ripeterle che tra un po’ Mohamed scapperà. Intanto sono passati cinque figli e 12 anni di matrimonio. Capire chi è il diverso tra noi e loro diventa sempre più complicato.
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