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Chi ha detto che Gaber è morto?
L'editoriale di Giuseppe Frangi all'indomani della morte di Giorgio Gaber.
E’ stata per tutti una sorpresa l?incredibile manifestazione di dolore e affetto che ha accompagnato la morte di Giorgio Gaber. Non bastava certo la popolarità del personaggio a spiegare un simile sentimento. Tutti sentivano, tutti sentivamo Gaber come un amico, un compagno di strada, uno che camminava al nostro fianco – non sopra, non davanti – e che con dolore e pudore poneva le domande che noi non avevamo il coraggio o l?umiltà di porci.
Ma ora che non c?è più, c?è ancora un modo per tradire la sua amicizia: quello di sentirlo assente. Abbiamo sentito tanti, in questi giorni, rimpiangere il vuoto che lui avrebbe lasciato. La mancanza di eredi capaci di seguire la sua strada. Macché: Gaber fa parte di quella genia di uomini che quando se ne vanno lasciano una scia densa, una presenza, una pienezza dietro di sé. È una genia rara, e per questo preziosa. Ma ci è stata data e quindi teniamocela stretta. Ricordandolo sotto le navate dell?abbazia di Chiaravalle, il critico musicale di Avvenire, Massimo Bernardini, ha ricordato, per analogia due altri personaggi, Pier Paolo Pasolini e Giovanni Testori. Giustissima analogia. Che non riguarda i contenuti, che non indica un?identità di posizioni. Ma suggerisce una densità e pregnanza di esperienza e intelligenza umana che neppure la morte riesce a dissipare. Non se ne vanno, anche se non ci sono più.
Restano con le loro parole ingombranti di passione e d?amore. Continuano a farci compagnia, a renderci inquieti, a sollecitare scontri e incontri con il reale.
Nel bellissimo dialogo con Luca Doninelli che Vita pubblica nelle ultime pagine, Gaber rivendica questa sua ingombrante diversità. Dice di aver sentito a un certo punto della sua vita, la necessità di giocare anche il suo corpo nel rapporto con il pubblico. Di parlare e cantare buttando in campo, anche fisicamente, tutto se stesso. Lo rivendica quasi con orgoglio, con la contentezza di chi attraversa la vita senza sognarsi di chiedere sconti.
«Non è poco sentirsi accettati così totalmente; a questo punto si aggiunge poi quello che dici e come lo dici, se sei capace o meno di dirlo. Voi scrittori il fisico non l?avete, noi sì». E poi, confrontandosi con uno dei due personaggi che, per analogia, gli sentiamo così ?fratelli?: «Pasolini era una personalità talmente forte che probabilmente teneva sempre; altri meno, Baricco ad esempio, è uno gradevole, in pubblico tiene bene, anche troppo, nel senso che forse è troppo carino, quindi su un palcoscenico bofonchia gradevolmente, non so se potrebbe dire cose incazzate, perché sembra che non si incazzi!».
È difficile, anzi è un po? ipocrita, pensare che un tipo così non continui ad essere presente, a farci sussultare ad ogni verso di una sua canzone (potremmo aprire un?antologia infinita, in proposito). Ma se uno come lui c?è, e ostinatamente continua a bussare al nostro cuore e alla nostra intelligenza, vuol dire che tanti, troppi non ci sono. Parlano da morti anche se sono vivi.
Forse più che a disputare di etichette politiche o religiose, sarebbe più salutare tenerci a distanza dai tanti maestri d?astrazione che, magari con discorsi eticamente perfetti, formalmente incantevoli, continuano a mettere intercapedini tra noi e la vita. Ci isolano da quella scandalosa poesia che si impasta con le nostre cose, con la nostra carne, con i nostri limiti. È quella poesia che ci accende di amore per il mondo, anche mettendo alla berlina il mondo. Che ci scaraventa addosso parole che ci fanno sentire vivi.
Gaber era uno, ed è, uno di questi. Aveva detto il grande Carlo Emilio Gadda (vero padre della migliore e più indisciplinata cultura italiana) che «l?occhio deve prepararsi aperto: se lo chiuderete per paura del difficile, vedrete le vene delle vostre palpebre, e soltanto quelle». Gaber è uno di quelli che ha sempre tenuto l?occhio ?preparato? e ?aperto?.
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