Siamo eterogenei. Tutti diversi l’uno dall’altro a seconda delle storie che abbiamo alle spalle. Guardate me.
Adoro la pasta. Ma se mi mettete davanti un felafel praticamente mi commuovo. E vi spiego il perché di Layla Joudè
U na delle conseguenze più immediate della società multiculturale è il conformarsi del marketing alle esigenze delle nuove cittadinanze. Prendiamo l’esempio della comunità musulmana che vive in Italia, e che a mio parere si trova ad affrontare quotidianamente problematiche molto più serie della scelta del cibo o del piano tariffario adatto alla propria famiglia. La mia sensazione è che il nuovo mercato ad hoc conduca all’omologazione. Si tende a cadere nello stereotipo che “siamo tutti uguali”.
chi mi conosce?
Il primo esempio a cui penso è me stessa: musulmana, nata in Italia, cresciuta in Italia, vesto alla moda, non mangio carne di maiale e non porto il velo. Non credo affatto di essere un’eccezione, anzi. Sono una delle tante, e vi assicuro che siamo veramente molte, musulmane “normali”, o meglio: non ossessionata dalla religione ma che la vive con serenità, conciliandola con i miei “usi e costumi” italiani. Mi chiedo quale possa essere il mercato ad hoc per una ragazza come me. Ma soprattutto mi chiedo se gli esperti di marketing sappiano della mia esistenza.
Amo la pasta, ma quando sento il profumo di falafel mi emoziono pensando alle mie origini arabe. Seguo la moda italiana per quanto riguarda l’abbigliamento, i profumi, la cosmetica, ma uso quasi sempre il sapone di Aleppo e aggiungo un “tocco arabo” per quanto riguarda gli accessori. Questo potrebbe essere il mercato da indirizzare alle 2G musulmane, ma potrebbe essere soprattutto un buon codice di comunicazione di massa per trasmettere il messaggio che esistono musulmane emancipate, velate o meno, non iperpraticanti o iperfissate. Questo tipo di mercato potrebbe quindi superare il suo ruolo troppo invasivo ed etichettatore.
Un esempio come il mio è un target molto difficile da soddisfare per i professionisti del marketing, ma è anche utile per dar vita ad un marketing culturale di massa e diffondere un’immagine positiva, quasi sconosciuta ma sempre più attuale, delle musulmane.
Le difficoltà non mancano: da una parte gli esperti di marketing soffrono spesso di una mancata conoscenza del mondo islamico e della sua eterogeneità.
Quando si considera la comunità musulmana bisogna rendersi conto che si sta trattando un gruppo religioso composto da culture diverse, non si possono ad esempio associare in un unico gruppo arabi e indonesiani. Inoltre, la comunità musulmana è composta da prime generazioni di immigrati e da figli italiani che rappresentano l’essenza di entrambe le culture e sono spesso molto diversi dai genitori. E ancora, una ragazza come me, non è associabile ad esempio ad un’altra coetanea di seconda generazione che frequenta solo la sua comunità, la sua moschea e le ragazze come lei e che magari in casa non ha mai mangiato gli spaghetti o la cotoletta. Devo ammettere che siamo i primi colpevoli dell’errata immagine che la società ha dei musulmani residenti in Italia. Lasciamo che i personaggi che si autoergono nostri rappresentanti adottino comunicazioni tutt’altro che positive e brillanti mettendo di conseguenza in cattiva luce anche ragazze come me.
Sguardi superficiali
Dall’altra parte i consumatori musulmani, a loro volta, percepiscono, forse troppo superficialmente, il marketing come omologante e finalizzato ad etichettare e sfruttare, molte volte senza prima informarsi e quindi senza capire. Il mio pensiero, infine, è che dovremmo essere noi i primi protagonisti nel cercare di costruire questo nuovo, e sicuramente complicato, rapporto tra 2G e marketing multiculturale, smettendo di essere un mondo che vive in isolamento e proponendoci positivamente come consumatori, e quindi persone con un reddito e che lavorano e producono.
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