Welfare

Le voci di dentroconquistano la piazza

pianeta carcere Cronaca di una serata molto speciale a Busto Arsizio

di Redazione

Usciamo dai saldi, finiscono le vacanze, riprende il lavoro. Di brutte notizie ce ne sono abbastanza e tirare avanti, siamo solo a settembre, è dura. E se parlassimo di carcere? Per favore no, il morale è già a pezzi. Invece scopri che a volte quel che dovrebbe essere puro esercizio fisico di masochismo diventa lezione civica di sano ottimismo. Possibile?
A Busto Arsizio sì. Duecento sedie ospitano altrettanti spettatori per una serata in piazza. Un successo pieno. Qualcuno è anche in piedi per la verità e, non ci scommettereste, si parla di carcere. Il carcere arriva in città. Cosa ci faccia in piazza Santa Maria lo si scopre abbastanza in fretta. È il buon senso a parlare. I penitenziari sono pieni, a volte di “poveracci”, racconta Michela Cangiano, commissario di Polizia penitenziaria della Casa circondariale di Busto Arsizio.
La sveglia la suonano una serie di considerazioni. Saranno i duecento euro giornalieri che costa ogni detenuto, se si vuole guardare al portafoglio, o la concreta possibilità di garantire un futuro a chi esce ed un ponte di contatto col mondo esterno, noi tutti, che ci ritroveremo a dar loro il bentornato. Approfondire la questione aiuta a scoprire realtà che non ti aspetteresti. Carcerati che confezionano un giornale, il Mezzo Busto, nel caso specifico, o un gruppo musicale capace di farsi apprezzare, i Belli in Busto o ancora un ragazzo che si diploma tra le sbarre, con tanto di madre commossa che al telefono esclama: «Dimmi tu se proprio lì dovevi finire gli studi…».
Mostri? A dire di no è l’amministrazione pubblica, che in prima persona si espone e porta in piazza un problema di cui non si vuol fare un nodo gordiano. Chi merita va avanti, senza raccomandazioni. C’è già chi ce l’ha fatta, battendo curriculum ben più immacolati. Perché in carcere si impara pure un mestiere. Per i più scettici un semplice esempio: 11/11/1111.
Cosa vuol dire? Trentanove anni, da diciassette in carcere, italiano. La carta di fine pena di un ergastolano. Nessuna speranza, data di uscita fittizia, meglio, nulla. Prospettive concrete? Lasciamo perdere. Eppure lui vuole lavorare, ha imparato un mestiere e avrà presto un contratto vero in azienda. E così tanti altri. È una scommessa. Già vinta dal Comune di Busto Arsizio che, insieme alle cooperative sociali e ai volontari, ha reso un argomento tabù qualcosa di pubblico, contemporaneo e vivo. La piazza respira, intende e si interroga. C’è chi corre dal parroco don Silvano, carattere istrionico alla don Camillo di Guareschi e chi, facendo da contraltare, interroga l’amministrazione. Ma, più delle buone intenzioni o delle parole rassicuranti di coloro che, per mestiere o vocazione, vivono il difficile “dentro fuori” quotidianamente, sono certe immagini a centrare il bersaglio.
Cala la luce sul palco, le voci si fanno sommesso brusìo, a me gli occhi. Non lo dice ma la sensazione è quella. Via per Cassano 102, video realizzato dentro il carcere, rivela che per fare il giro del mondo bastano venti minuti, altroché ottanta giorni. Non me ne voglia Verne e del resto non v’è possibilità di concorrenza, c’è poco di romanzato in questa storia. La fatica come redenzione, il sudore lacrima attiva per lavare la macchia e farsi trovare pronti al secondo appuntamento con la vita. Non chiedono pietà, sanno quanto hanno tolto alla comunità e cosa serve per riconquistare uno straccio di credibilità.
È un messaggio serio quello che esce dalla piazza, privo di inutili patetismi e anzi sorretto da un progetto di reinserimento pieno nel contesto sociale. Si può guardare con fiducia al futuro, per una volta almeno non dovremo aspettarci di ritrovare per strada un «Io speriamo che me la cavo».

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