Cultura
Meeting, “Si può vivere così”
Testimonianze dall'Italia, da Taipei e dall'Africa
Da Rimini
Due giorni di incontri eccezionali. Quelli vissuti ieri e oggi per il ciclo “Si può vivere così” all’interno del Meeting di Rimini. Lunedì pomeriggio a richiamare migliaia di persone hanno affollato la sala per ascoltare suor Elvira Petrozzi, fondatrice della Comunità “Il Cenacolo”, don Emmanuele Silanos, missionario a Taiwan della Fraternità sacerdotale San Carlo Borromeo e Felice Siciliano, direttore generale della CdO Campania. Oggi la folla è stata ancora maggiore per ascoltare le testimonianze di Vicky Aryenyo del Meeting Point International in Uganda, Margherite Barankitse, fondatrice della Maison Shalom in Burundi introdotte da Rose Busingye, infermiera ugandese, al punto che non era difficile incontrare decine e decine di persone sedute a terra davanti ai maxi schermi che hanno rimandato le loro testimonianze in diversi angoli della fiera.Ieri introducendo l’incontro Alberto Savorana, portavoce di Comunione e Liberazione, ha osservato di fronte a tanta folla che: «Nell’incontro di questo pomeriggio (ieri, ndr.) il Meeting offre la testimonianza di persone per le quali l’incontro cristiano è qualcosa di così reale, entusiasmante, da cambiare la loro umanità e di chi gli sta vicino».
«Anche se ho la tremarella dalle ginocchia in giù – ha esordito suor Elvira – sono contenta di essere tra voi, perché questo è un ambiente saturo di vita». E’ un fiume in piena la religiosa di origini ciociare che racconta che fu costretta a trasferirsi, ancora bambina, da Sora ad Alessandria. «La mia famiglia era più povera delle altre», povertà resa ancora più drammatica dal fatto che il papà era dedito all’alcolismo. «Per molto tempo mi sono vergognata di parlare della mia famiglia – ha proseguito – ma proprio questa condizione drammatica mi ha fatta diventare una donna capace di amare. Mio padre, nonostante tutto, mi ha insegnato l’umiltà e la povertà, insomma mi ha insegnato a vivere. Lui questa cosa non la sapeva, ma, attraverso la sua condizione, ha formato me al sacrificio e all’obbedienza, e oggi dico grazie alla divina Provvidenza di aver avuto un padre così, che posso definire il primo drogato che mi è stato donato. Tutto quello che ho vissuto da piccola – ha aggiunto – è stato trasformato: dalle tenebre alla luce». Suor Elvira ha poi raccontato la vita della comunità che si occupa di persone tossicodipendenti, emarginate dalla società ma soprattutto dalle proprie famiglie. «Il nome della comunità Cenacolo deriva dalla memoria di un ricordo evangelico: quando gli apostoli hanno visto Gesù in croce hanno avuto paura, erano pieni di rabbia, e si sono rifugiati con la Madonna nel Cenacolo». Ha poi terminato con un monito: «Stiamo attenti ai bambini, perché – ha detto – si chiedono tante cose senza ricevere risposta», e questo è un problema soprattutto dei genitori che sono molto più intenti a chiedere loro se vogliono “la banana o il gelato”, piuttosto che a percepire che i figli chiedono di essere oggetti di un amore. «Accade così anche per i giovani che frequentano le nostre comunità – ha terminato – una volta accortisi di un bene cominciano a fare cose straordinarie».
Don Emmanuele Silanos è da circa diciotto mesi missionario a Taipei, nell’isola «dove tutto è cinese» i cattolici rappresentano lo 0,4% della popolazione e i missionari della Fraternità di San Carlo Borromeo prestano servizio in due parrocchie oltre che in Università. Il suo intervento si è basato sul brano del Vangelo di domenica (“La gente chi dice che io sia?”) e su una domanda: «Se Gesù domani arrivasse a Taipei e mi ponesse la stessa domanda, risponderei: questa gente non ha la più pallida idea di chi Tu sia». Da qui una duplice consapevolezza: lo sguardo di Cristo su questa gente e il dono di un metodo, quello della pazienza di incontri personali incrociando lo sguardo di ciascuno. «Io sono lì perché me la sono cercata – ha rivelato – perché dopo aver visto il film “Vivere!” che raccontava della storia di due innamorati cinesi mi è stato chiaro un fatto che valeva per quei due e anche per me: il desiderio di amare ed essere amati». Molti gli eventi eccezionali che accadono e che testimoniano l’agire di Dio in quella terra, in particolare Silanos ne ha raccontati due. Il primo riguarda una studentessa universitaria, regalata a una famiglia perché terza figlia. «Quando le lessi il racconto evangelico sul “perdonare a tutti” si rabbuiò e mi disse che non poteva essere possibile. Questo mi ha indotto a prendere più consapevolezza di essere in prima persona “oggetto della misericordia”. Un altro ragazzo a seguito della morte di un amico era deluso dal fatto che un’amicizia potesse finire. Poi però è stato ripagato grazie alla visita a San Luigi dei Francesi a Roma di fronte alla “Vocazione di Matteo” di Caravaggio. Mi ha detto che la luce che nel quadro va da Gesù a Matteo è la nostra amicizia. E così ha intuito – ha proseguito Silanos – che l’opera più grande è il dono di colui che Egli ti mette accanto». Al termine dell’intervento Silanos ha spiegato il motivo per cui ha chiesto di andare in missione: “Grato per il dono ricevuto”. «Silanos è un cognome quasi impronunciabile per i cinesi. La traduzione italiani degli ideogrammi del mio cognome significa proprio questo: la gratitudine per un dono (Xiè Chéng En)».
Anche Siciliano ha raccontato “fatti, incontri, avvenimenti” che testimoniano la bellezza della storia che ha incontrato e che continuamente lo anima e lo sostiene. «Di fronte al contrappasso che la città di Napoli sembra dover scontare io e i miei amici non siamo stati definiti da nessun elemento esterno, ma dal fatto che una bellezza c’è e che il cuore della gente continuamente lo grida». Siciliano parla di gente con un nome e cognome, quello degli “scugnizzi” del Rione Sanità che undici anni fa, notando la presenza di molti giovani presso la residenza dei Vincenziani (sede di Cl), chiesero con insistenza di entrare per vedere cosa succedesse all’interno e che da allora non l’hanno più abbandonata, affascinati da uno sguardo sulla loro vita che nessuno mai aveva mai avuto. «Di fronte a tanto interesse – ha proseguito – è diventato sempre più chiaro un metodo: andiamo a vedere», che è anche il motivo della canzone “Jamme a vedè” eseguita da Alfredo Minucci. «I personaggi di questa canzone non sono una invenzione artistica – ha sottolineato – ma è gente che in questi giorni è presente presso Piazza Napoli (zona CdO dei padiglioni fieristici). Parlo di Anna che dopo l’incontro con quelli del Centro di Solidarietà ha riscoperto la fede e ha avuto la forza di stare vicino al marito ubriaco, oppure di Margherita e Nando che attraverso lo stesso incontro hanno trovato la forza di continuare a vivere nella “giungla», o ancora di Giancarlo, docente di Fisica all’Università, pieno di pregiudizio verso il cristianesimo e Cl, ma onesto intellettualmente. Dopo aver accolto l’invito a partecipare alla scuola di comunità che si tiene proprio nel rione è rimasto stupito dalla profondità di un’esperienza intensamente vissuta. L’incontro è terminato ancora con Alfredo Minucci che ha eseguito “Alluccamm’ o bene” un vero e proprio grido di speranza.
«Ciò che può dare valore a tutta la nostra libertà è qualcosa di più grande, è un rapporto» ha esordito nell’incontro di oggi pomeriggio, Rose Busingye, infermiera professionale in Uganda e fulcro dell’International Meeting Point di Kampala. «Un io che appartiene, diviene protagonista, perché ha un volto”. In questo contesto: “Tu hai un valore infinito, più dell’orrore della guerra e della malattia. Il riconoscimento di quell’Altro che crea la realtà, e resta presente nella compagnia della Chiesa, rende la vita danzante».
La prima testimonianza è quella di Marguerite Barankitse, fondatrice della Maison Shalom in Burundi. «Sono qui per raccontarvi una storia, una storia triste, certamente, ma che ci dice che è possibile vivere felici anche in mezzo alle atrocità». Le atrocità sono quelle dei conflitti etnici tra Hutu e Tutsi, con il loro carico di morti, orfani, mutilati. In mezzo a queste drammatiche contraddizioni, Barankitse ha cercato di accogliere e soccorrere i bambini orfani di entrambe le etnie: all’inizio, nel 1993, erano sette; dopo cinque mesi erano diventati mille; oggi sono oltre diecimila i bambini a cui Marguerite e l’opera che da lei è nata (che comprende anche un ospedale) hanno dato assistenza e amore. «Sono arrivati da me anche bambini dal Ruanda e congolesi. E chiedevo: ‘Signore, che vocazione mi vuoi attribuire?’ La risposta l’ho trovata negli occhi dei bambini. Ho capito che la vita è una festa e l’amore trionfa sempre». I piccoli sono cresciuti, si sono sposati, hanno ritrovato la loro identità, sono diventati anche medici, economisti… «Questo è il frutto della follia, dicono alcuni. Mi chiamano – ha notato la Barankitse – ‘la pazza del Burundi’. Ma io dico che questo è il frutto dell’amore. Invece di maledire le tenebre, accendiamo una piccola candela, come diceva la grande madre Teresa di Calcutta».
Commovente la testimonianza dell’ugandese Vicky Aryenyo, del Meeting Point International. Nata in un villaggio della parte orientale dell’Uganda ha dovuto interrompere la scuola per la malattia della madre; poi si è trasferita a Kampala. Alla terza gravidanza, nel ’92, il marito, senza esplicitarne il motivo, voleva che abortisse: Vicky si è opposta e il marito l’ha abbandonata. Tra il 1997 e il ’98, si è resa conto di aver contratto dal marito l’Hiv e che anche il figlio piccolo era ammalato di Aids. «Tra il ’98 e il 2001 abbiamo vissuto come in un altro mondo, pur rimanendo sulla terra. Abbandonati da tutti, io e i tre figli: nessuno ci sorrideva, tutti ci odiavano». Nel 2001 sono entrati nella casa di Vicky i volontari del Meeting Point Internazional, ma Aryenyo ha ripetutamente resistito ai loro inviti. «I volontari sono riusciti a catturami – ha raccontato Vicky – tramite mio figlio: l’hanno preparato per il trattamento medico; a questo punto ho incominciato a capire che potevo fidarmi. Un giorno sono andata nell’ufficio di Rose. Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: Vicky, tu hai un valore e questo valore è più grande della malattia. Tu ce la puoi fare, hai solo bisogno di ritrovare la speranza. E gli occhi di Rose parlavano più della sua bocca. Erano occhi di amore, come se dicessero: c’è qualcosa sopra di te, in cui devi riporre la tua speranza». Alla fine, Vicky ha ceduto. «Mi sono resa conto che il volto di Dio era nel volto di Rose. Rose mi ha dato una spalla sulla quale appoggiarmi e Cristo, sotto forma di Rose, è venuto da me. Tutto è cominciato con un incontro e questo incontro ha fatto risorgere la mia vita». Anche il corpo, pur nelle sofferenze, è iniziato a risorgere: nel 2003 anche Vicky ha cominciato la terapia. Ma tutto, ha ribadito Vicky Aryenyo, «è iniziato con Rose che ha detto di sì alla sua chiamata. Sappiamo di Lazzaro che è resuscitato tanto tempo fa. Se non avete visto un miracolo, eccolo, sono io: eccomi qua; anch’io, infatti, ero morta. Ecco perché – ha aggiunto Vicky – io sono ‘schiava’ di questo movimento che mi accompagna verso il mio destino e mi ha aiutato a riacquistare la speranza. Per avere la propria libertà c’è solo una cosa da fare: dire di sì quando arriva la chiamata».
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