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In Kosovo 4 anni dopo la guerra. Mitrovica, la città che non si parla

Da una parte 90mila albanesi, dall’altra 15mila serbi. Due enormi ghetti senza luce. In mezzo, quattro ponti che nessuno attraversa mai.

di Redazione

Dal ponte vecchio sul fiume Ibar, nel cuore di Little Bosnia, Mitrovica si mostra stanca, quasi stravaccata sulle due colline che la delimitano. I palazzoni in stile titino sventrati dalle bombe intelligenti della Nato e il camino principale della vecchia miniera, ormai in disuso, a nord sono appannaggio dei serbi. Girando le spalle di 180 gradi, ecco il versante albanese con le sue distese di fango, le strade bucate dal passaggio dei carri armati e le case basse. Per vedere cosa resta di Mitrovica, città kosovara simbolo della guerra del 1999 a pochi chilometri dal confine con la Serbia, non c?è osservatorio migliore che la conca di Little Bosnia. Qui, uno sconcio fiumiciattolo, l?Ibar, tiene separati due popoli, i serbi a nord e gli albanesi a sud, che per decenni hanno convissuto, ma oggi non riescono più a guardarsi in faccia. Little Bosnia è un quartiere-cuscinetto. Una sottile stringa di terra riempita dalle baracche dei profughi bosniaci piazzati quaggiù per impedire che i 15mila serbi e i 90mila albanesi regolino i loro conti con pistole e bombe a mano. Merci a portata di mano di tutti: bastano 30 dollari per portarti a casa due bombe a mano (insieme alla grappa alla prugna, i souvenir tipici del Kosovo). A Mitrovica c?è stata la guerra, ma se dovessimo stabilire chi l?ha vinta giudicando da quello che scorgiamo dalla conca bosniaca, non sapremmo proprio cosa rispondere. Devastazione e povertà a nord. Devastazione e povertà a sud. Addobbi e luci natalizie, neanche a parlarne. Attenzione: niente foto Ancora un?occhiata, quindi decidiamo di risalire dal versante serbo. Dove le vie non hanno nome, le automobili girano senza targa e come moneta si usa ancora il dinaro di Belgrado. «Da questa parte niente foto», si raccomanda Ivano, un calabrese che vive a Mitrovica da quasi quattro anni, «gli slavi non amano essere ripresi, se si accorgono di un flash, potrebbero reagire». «Sono abituati a sparare per molto meno», aggiunge. Ok. Capita la lezione, con le macchine fotografiche nello zaino passiamo la frontiera, sotto lo sguardo dei militari francesi, responsabili del comando delle forze internazionali del Kosovo settentrionale. Il volto serbo di Mitrovica ha qualcosa familiare. A differenza del versante albanese, ci sono parecchi bar e ristoranti, qualcuno perfino illuminato (a sud invece, appena cala il sole è buio pesto, visto che la corrente è un lusso che pochi si possono permettere). «Gli occidentali che vivono qui», conferma Ivano, «siano soldati, cooperanti o funzionari delle organizzazioni internazionali, quando vogliono trascorrere una serata allegra vengono sempre a nord». Pizza al Number One Non a caso i tavoli del Number One, il ristorante più caro e rinomato della città (piatto forte: la pizza, «ottima» ci dicono) sono sempre prenotati da militari francesi e carabinieri italiani (in città ce ne sono 30). Una fortuna: perché oggi la Mitrovica serba campa quasi esclusivamente grazie al denaro che i soldati della Kfor spendono in cerca di un bicchiere o di compagnia per riscaldare le gelide nottate balcaniche. Dall?altra parte dell?Ibar, invece, ci si affida alle rimesse dei parenti emigrati. Germania e Italia le mete privilegiate. Nel complesso però, il 90% della popolazione non ha lavoro. Come sono lontani i tempi in cui la miniera della città, senza considerare l?indotto, dava da mangiare a 15mila famiglie serbe e albanesi! Da anni, ormai, non si estrae più nulla, né carbone, né ferro, né oro. Terra fosforescente Ma forse non è andata così male, considerando la sorte toccata all?altra fabbrica cittadina, che produceva batterie. E che è stata spazzata via all?improvviso, sotterrata da una bomba piovuta dal cielo. «In quei giorni», raccontano alcuni testimoni, «il terreno adiacente al complesso era fosforescente, e per anni bere l?acqua di Mitrovica è stato come bere veleno». Ormai la notte incombe e il freddo si fa pungente. È ora di tornare nella parte bassa della città, passare il mercato, e raggiungere i nostri alloggi senza luce né riscaldamento. Soli, di qui non passa mai nessuno, percorriamo i 200 metri del ponte vecchio di Little Bosnia. Prima, però, dobbiamo salutare Franziska, la nostra interprete. La casa di Franziska Lei a Little Bosnia non ci mette piede. Storia sintomatica la sua. Albanese, ma cattolica (qui sono meno dell?1%, ovvero una decina di famiglie), e, sventura sua, inquilina e proprietaria di una bella casa a Mitrovica nord, una delle poche risparmiate dalle bombe occidentali. «Sono in un vicolo cieco», racconta, «costretta a guardarmi le spalle per sempre. Vorrei trasferirmi a sud, ma i serbi non spenderanno mai un dinaro per comprare la mia casa. Tanto, dicono, prima o poi sarai costretta ad andartene. E, ovviamente nessun albanese, si trasferirebbe mai nella zona serba». Proprio così: gli abitanti di Mitrovica, nord o sud che sia, non attraversano mai i quattro ponti e le rispettive frontiere che collegano la sponda serba a quella albanese. L?aspro destino kosovaro non presenta il conto quotidiano solo a Franziska. Cimiteri al rovescio Così capita che, dopo la separazione della città, il cimitero dei serbi sia rimasto in territorio albanese, e quello degli albanesi in territorio serbo. In entrambi i casi è stato un gioco da ragazzi dissotterrare le tombe e violare le salme. Così capita che la più importante chiesa ortodossa si trovi alle spalle del mercato albanese e debba essere difesa 24 ore al giorno da un fortino di militari greci in assetto da guerra con il mitra puntato ad altezza uomo. Così capita che il quartiere dei rom rimanga in terra albanese. E, a guerra finita, le milizie dell?Uck abbiano impunemente raso al suolo la cittadella gitana per punire i loro vicini, accusati di aver appoggiato Belgrado durante il conflitto. E così capita perfino che alcuni rom, per sfuggire la rappresaglia albanese, si siano inventati artificiosamente un?etnia. Oggi infatti si fanno chiamare askali (o rom bianchi) e si dichiarano filo albanesi. Follie. È quasi mezzanotte, pochi minuti e sulla triste Mitrovica calerà il coprifuoco. Qui anche il Natale è un giorno qualunque. La guerra è finita da quasi quattro anni. Chissà chi l?ha vinta?


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