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Così il Paese sta tornando a vivere. Frenetico Afghanistan

E' tornata la pioggia. Le strade sono piene di camion. Il burqa c’è sempre,ma non fa più problema.

di Nino Sergi

Afghanistan, dicembre
La strada che dal Pakistan arriva a Jalalabad è oggi un andirivieni di mezzi pesanti che trasportano di tutto. Molti i camion carichi di legname, bene prezioso, divenuto ormai raro in Afghanistan. Più ci si avvicina a Jalalabad e più la terra si fa verde, ampiamente coltivata lungo la valle del fiume. La provincia di Nangarhar è una delle più ricche dell?Afghanistan. In questa e nelle altre province orientali di Kunar e Laghman sono ritornati, dalla primavera del 2002, più di 300mila profughi che negli anni passati avevano trovato rifugio in Pakistan.
Gli operatori di Intersos stanno aiutando circa 50mila persone a reinserirsi e a ripartire anche con attività produttive. Molte le case ricostruite, in tutti i villaggi della regione: muri fatti di fango mescolato con paglia e lasciato seccare al sole, fini tronchi di legno come architravi e come sostegno del tetto terrazzato, anch?esso di fango. Dopo tre anni di siccità, quest?anno è piovuto, ma la pioggia continua a essere insufficiente. Alcuni dei vecchi profughi non si fidano ancora pienamente: «la situazione rimane incerta», dicono, e mantengono dei familiari a presidiare l?abitazione o l?attività commerciale che erano riusciti a costruirsi al di là della frontiera, in Pakistan.
Questa è una delle aree di produzione del papavero da oppio. Un?altra, forse ancora più produttiva, è la provincia meridionale di Helmand. Si dice che la produzione sia aumentata, pur trattandosi della semina del 2001, ancora sotto il controllo talebano, che era peraltro riuscito a farla crollare nell?ultimo periodo. è un problema che il nuovo governo dovrà al più presto affrontare, pena la ripresa in grande stile del traffico e l?arricchimento, e quindi il rafforzamento politico e militare, dei potentati della regione.

La strada di Maria Grazia
Da Jalalabad a Kabul si nota un?intensa attività per riparare e rendere più agibile la strada, sterrata e piena di buche lungo tutto il percorso. I lavori sembrano procedere con molta speditezza. Ripercorro, a un anno dalla morte di Maria Grazia Cutuli e di Julio Fuentes, la stessa suggestiva strada dove furono aggrediti e uccisi. La frequenza dei passaggi delle auto e dei camion la rende ora sicura. È comunque un momento di commozione.
Prima di entrare in città, mi fermo al centro di transito dei profughi, organizzato dall?Unhcr all?estrema periferia orientale. Da qui sono passate e sono state assistite alcune centinaia di migliaia di persone. Ora è iniziato il freddo: anche se durante il giorno fa ancora caldo, al mattino le pozzanghere sono ghiacciate. Il ritorno dei profughi si è quindi interrotto; probabilmente riprenderà alla fine della prossima primavera. Solo un pullman con una ventina di persone è fermo in attesa dell?espletamento delle pratiche: visita medica, vaccinazioni per i bambini, verifica dello stato di bisogno delle persone e dell?eventuale necessità di particolare assistenza, registrazione, sussidio finanziario per chi deve continuare il viaggio fino al proprio villaggio in altre province. I nostri operatori sono stati impegnati nelle attività relative al contatto con le persone per indirizzarle e per individuare condizioni di particolare povertà, malattia, depressione ecc. da seguire direttamente attraverso operatori sociali presenti in modo organizzato in Kabul.
Kabul è la città più inquinata dell?Afghanistan. Già alle 9 del mattino una pesante nuvola di smog, prodotto dai gas di scarico del formicaio dei mezzi di trasporto, domina su tutto, aggravandosi col passare delle ore. Ha raddoppiato i suoi abitanti: molti i profughi giunti dal Pakistan e molte le persone in estremo bisogno giunte in cerca di una qualsiasi forma di sussistenza. Proprio a queste persone cerchiamo di essere vicini. Da un lato abbiamo formato una trentina di operatrici e operatori afghani che stanno ora impegnandosi con generosità, interesse e professionalità per cercare di garantire la dovuta assistenza e di trovare risposte ai bisogni; dall?altro abbiamo cercato di coinvolgere su questo obiettivo un?ottantina di organizzazioni non governative internazionali e afghane, cercando di mettere le basi per interventi analoghi sulle fasce più bisognose della popolazione nelle altre province dell?Afghanistan.
Per fine febbraio riusciremo a terminare i lavori per la ricostruzione dell?ospedale Khair Khana, riferimento sanitario importante per circa 200mila persone dei quartieri più poveri della parte settentrionale della città.
Infine, la nostra squadra di sminatori ha operato, nei pressi di Kabul e in altri distretti pericolosi, fianco a fianco con gli sminatori afghani, fornendo consulenza, approfondita formazione, severità nell?osservanza delle norme di sicurezza (nessun incidente si è verificato grazie a questa severità), con particolare riferimento alle micidiali bombe cluster, le bombe a grappolo lanciate sull?Afghanistan e rimaste inesplose per circa il 20%: il semplice tocco produce morte nel raggio di 300-400 metri.

La voglia di farcela
A Kabul si è subito colpiti dalla caotica e frenetica quotidianità che spinge tutti a cercare o inventare attività per sopravvivere. Commerci di ogni tipo, fino alle più imprevedibili vendite al minuto, edilizia, trasporti, impieghi presso organizzazioni internazionali, piccole officine: tutto esprime la voglia di ripartire.
Rispetto agli uomini, le donne nelle strade sono poche; ma circa 2 su 10 sono senza burqa. Nelle altre città non è così. È difficile per una donna togliere il burqa in pubblico: anche dove potrebbe farlo, normalmente preferisce portarlo, o comunque rimanere nascosta dentro un ampio foulard. Sembra incredibile, ma è un modo per sentirsi a proprio agio, più libera. Molte cose devono cambiare nella cultura afghana prima che la donna possa sentirsi a proprio agio in pubblico libera dal burqa. Una di loro diceva che in Afghanistan è necessaria urgentemente un?ampia azione per l??emancipazione dell?uomo?.

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