Formazione

Bali, inferno o paradiso?

Una riflessione dopo il terrificante attentato nell’isola

di Carlotta Jesi

L?isola dei sorrisi non esiste più. È sprofondata, insieme a 190 morti, 309 feriti e centinaia di dispersi, sotto le macerie del Sari Club di Kuta Beach. E con la Bali tutta ghirlande di fiori e cortesia è sprofondata anche l?illusione di poter costruire isole di benessere in un mare di povertà. Illusione dei tour operator occidentali ma anche di molti turisti per cui Kuta Beach era l?Indonesia. Bianca, punteggiata di palme, un?oasi di pace, selvaggia ma non troppo. È il contrario, semmai. «Appena ho sentito dell?attentato, ho detto: è Al Qaeda. Perché dall?11 settembre l?isola incarna il modello di turismo esotico nel Sud del mondo», spiega Luciano Del Sette, direttore del portale di turismo Sandokan.net, autore con Alfredo Somoza della Guida ai viaggi a occhi aperti edita da Airplane e profondo conoscitore dell?Indonesia dove ha vissuto sette mesi come corrispondente del Manifesto. «Perché, in un contesto di fanatismo religioso, Bali diventa il simbolo dell?Occidente che sporca modelli culturali preesistenti. Dell?Occidente che insulta, che manca di pudore, che ostenta ricchezza». E guai a pensare che il rischio bomba sia circoscritto ai Paesi in cui impazza la Jihad: sarebbe un errore. Servirebbe solo a dirottare i flussi turistici da Bali a Cuba, a Santo Domingo, a Zanzibar, al Kenya. Altri paradisi circondati da miseria e bidonville cui basta un niente per esplodere. Immaginate di lavorare nel villaggio turistico di un qualunque Paese povero: allestite il buffet giornaliero, osservate la gente riempirsi i piatti di cose che non mangerà. Come reagite? Minimo vi viene voglia di avere gli stessi occhiali da sole dei turisti. Massimo, purtroppo, di rubare e sparare. Gli operatori del turismo responsabile lo sanno. Da qui il loro sforzo, titanico, di proporre vacanze che rimettano in sesto la società dei Paesi poveri oltre che i turisti. Una lotta contro tutti che Tierra ha deciso di raccontare. Perché un?alternativa ai paradisi artificiali c?è. I paradisi reali come le Seychelles: invece di svendere i suoi atolli, il governo locale ha imposto politiche turistiche che creassero ricchezza diffusa. Corsi di formazione per i suoi abitanti in modo che non venissero sfruttati come manodopera a basso costo. Modelli di sviluppo difficili da invidiare, e da bombardare.


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