Famiglia

Nella casa dei mutilatinidi padre Maurizio

sierra Leone La straordinaria vita di un missionario nel Paese dei bambini-soldato

di Redazione

Uno dei lati del cortile è delimitato da un ampio muro dipinto di giallo oltre il quale ci sono le camerette: piccole, ordinate, sobrie, con i letti a castello. Le ragazze – adolescenti intorno ai 14-15 anni – chiacchierano allegre nel cortile, alcune si fanno le “treccine” a vicenda, altre ascoltano musica da un vecchio registratore, altre cucinano riso e carne in un pentolone su un fuoco di legna che arde nel centro del cortile.
Fuori la caotica Freetown vive le ultime ore di luce della giornata. Sulla Kissy Road sfrecciano auto sgangherate, taxi collettivi, camion stracolmi a fianco di file di pedoni che, a loro volta, trasportano mercanzie varie, sacchi di farina, fascine di legna, le donne con bambini legati sulla schiena e, in equilibrio sul capo, secchi, taniche, fagotti. Tra poco la città piomberà nel buio: a Freetown non c’è luce elettrica. Non per questo la vita si fermerà, gli abitanti ci sono abituati: la luce è un lusso, l’importante è che non ci sia la guerra.
Tutti la ricordano la guerra, dieci anni di follia, uno dei conflitti più crudeli e feroci di tutto il continente. Una sciagurata formazione guerrigliera, il Ruf, Fronte unito rivoluzionario, ha inondato di terrore il Paese con una guerra civile combattuta da ragazzini. Qui i bambini – soldato sono stati usati in modo scientifico dai leader guerriglieri. Quando veniva attaccato un villaggio, gli adolescenti erano obbligati a compiere gli atti più disumani, come uccidere i genitori o le sorelle. Un sistema per annullare nelle loro coscienze qualunque barlume di umanità. Poi venivano inquadrati nelle file del Ruf, spesso drogati, ai più grandi veniva dato un kalashnikov, i più piccoli costretti a fare i lavori di fureria: lavare i panni dei comandanti, cucinare, trasportare materiale e armi nei trasferimenti nella boscaglia.
Le ragazze della casa – famiglia di padre Maurizio Boa, missionario da anni a Freetown, conoscono bene questi bambini-soldato, ne sono le vittime. Sinnah, 14 anni, è stata accecata in un modo crudele, le hanno fatto colare negli occhi le gocce di un sacchetto di plastica bruciato. Con Saffy sono stati più spicci, le hanno cavato gli occhi con la baionetta. Sidimba ha un’altra storia, fa parte della folta schiera di mutilati. Con un colpo netto di machete le hanno amputato il braccio destro all’altezza della spalla, non potrà mai portare una protesi. Nel linguaggio crudele dei guerriglieri era una “manica corta”. Altri mutilati, le “maniche lunghe” sono stati più fortunati, hanno tagliato un braccio all’altezza del polso.
In Sierra Leone gli amputati sono migliaia. Questa pratica è stata usata su larga scala e in modo scientifico per spargere terrore e privare il governo di qualunque sostegno. Oggi i mutilati sono un peso per il Paese: sono improduttivi e avrebbero bisogno di essere assistiti. Di fatto sono abbandonati a se stessi.
Paradossalmente Sidimba, Saffy, Sinnah e le altre sono fortunate. Padre Maurizio le ha accolte nelle sue case famiglia, paga loro la retta per andare a scuola e ha organizzato le residenze in modo che la solidarietà sia la regola. La vita nella casa – famiglia si svolge all’insegna dell’aiuto reciproco e i risultati si vedono: a scuola Saffy, Sidimba, Sinnah sono tra le migliori della loro classe e padre Maurizio ne è orgoglioso.
Ma le case – famiglia sono una goccia nel mare dei bisogni della Sierra Leone. Girare per Freetown dà l’idea di cosa è successo in questo paese. Uomini e donne mutilate chiedono l’elemosina su tutte le strade del caotico centro cittadino. Nel groviglio di auto che si forma nella piazza dell’Albero del Cotone, un tronco maestoso che fa da monumento nazionale perché vi venivano incatenati gli schiavi, si concentrano i doppi mutilati. Con i loro moncherini tengono un bicchiere di plastica che tendono vicino ai finestrini delle auto.
Padre Maurizio anche per loro ha cercato di mettere in campo la solidarietà. Hanno bisogno di una famiglia, di un aiuto quotidiano e così, con gli aiuti che gli arrivano dall’Italia, per alcuni di loro ha costruito, e intestato, una casa, uno stratagemma per non farli abbandonare dalle loro famiglie che rimangono con loro perché sono proprio loro a offrire il privilegio di una casa vera, in muratura, per la quale non bisogna pagare un affitto.
Sinnah, Sidimba e Saffy ridono serene nel cortile della loro casa – famiglia. Sidimba è la più loquace e a volte ne parla: «Volevo essere bella», dice con un sorriso triste. Poi cerca di cacciare l’ombra dei ricordi che le passa davanti agli occhi: «Quando avrò finito di studiare, voglio fare la manager di banca».


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