Economia

Il Doha round parte in salita

E' già contrapposizione frontale al ciclo di negoziati sul commercio internazionale che si è aperto oggi a Ginevra.

di Emanuela Citterio

È iniziato subito con una contrapposizione frontale il ciclo di negoziati sul commercio internazionale che si è aperto oggi a Ginevra. I negoziati, che si svolgono all’interno della World Trade Organization (Wto) vedono attorno al tavolo i ministri per il commercio di oltre 150 paesi (per l’Italia partecipa il sottosegretario Adolfo Urso), e hanno come obiettivo quello di arrivare a un accordo sul commercio mondiale a sette anni dal lancio del cosiddetto “ciclo di Doha” , ovvero il negoziato multilaterale sugli scambi lanciato a Doha, nel Qatar, nel novembre 2001, che si sarebbe dovuto concludere nel 2006 e avrebbe dovuto rilanciare la liberalizzazione del commercio mondiale.

Ma stamane i negoziati si sono arenati quasi subito sui sussidi agricoli e i dazi sui beni industriali, con l’opposizione fra il cosiddetto “fronte del Sud”, che vuole una riduzione più sostanziosa delle sovvenzioni agricole nei paesi ricchi, e il “fronte del Nord” che chiede come compensazione una maggiore apertura ai prodotti industriali nei mercati emergenti.

L’Italia: no al dumping dei nostri prodotti

L’Italia ha annunciato che si opporrà alla decisione del Wto di mettere nella lista dei “prodotti tropicali” (che devono quindi essere commercializzati senza dazi) prodotti come pomodori, riso e patate. A confermarlo in un’intervista a La Stampa è il ministro delle politiche agricole Luca Zaia. «Tutti questi comparti rischierebbero di essere spazzati via da un’invasione di prodotti esteri» afferma. Il ministro sottolinea anche che i dazi devono restare: «siamo convinti che le nostre produzioni vadano difese fino in fondo e chi viene sui nostri mercati deve avere i giusti handicap che non gli permettono azioni di dumping».

Paesi ricchi versus Paesi poveri?
Diversi quotidiani oggi hanno presentato il Doha round come uno strumento per avantaggiare i Paesi poveri. Scrive La Stampa: «Nel 2001 l’emozione del post 11 settembre ha spinto i protagonisti dell’economia globale a studiare un modo per sostenere i poveri togliendo i dazi d’ingresso ai mercati alimentari dei ricchi». Un gesto di liberalità da parte delle economie più forti? Repubblica si spinge ancora più in là: «Sull’onda dell’attacco alle Torri Gemelle lo smantellamento del protezionismo dei ricchi fu visto come la migliore cura contro il risentimento dei paesi del Sud del pianeta contro l’Occidente». “L’Occidentale” online invece scrive che: «allora sembrò una salutare boccata d’ossigeno per l’economia mondiale dopo il brutto colpo ricevuto l’11 settembre».
Ma a contrapporsi sono davvero Paesi in via di sviluppo e Paesi “sviluppati”? (A proposito: la Cina, l’India e il Brasile ora dove si collocano?) Come mai allora a chiedere all’Italia di “mettersi di traverso” ai negoziati di Doha è sia Coldiretti, che “difende” gli agricoltori italiani, che Tradewatch, un osservatorio non profit che sostiene le istanze degli agricoltori dei Paesi più poveri?

La posizione di Coldiretti

Il presidente di Coldiretti Sergio Marini ha espresso sostegno all’iniziativa del Ministro Luca Zaia e del Commissario Europeo all’agricoltura Mariann Fischer Boel per escludere numerosi prodotti agricoli di interesse nazionale, quali gli agrumi, il riso, i fiori recisi, le patate e numerosi ortofrutticoli dalla lista dei prodotti tropicali. «Il processo di liberalizzazione non può che essere legato al rispetto di regole comuni per quanto riguarda standard e trasparenza sulla provenienza dei prodotti per combattere i fenomeni di concorrenza sleale che fanno sentire pesantemente gli effetti sul Made in Italy» ha detto Marini.

La posizione di Tradewatch

Secondo Tradewatch non si tratta di uno scontro fra nord e sud del mondo ma fra due modelli: «Se il Doha Round verrò concluso, i principali beneficiari della liberalizzazione saranno le grandi imprese, ma con pesanti ripercussioni sull’ambiente e sui lavoratori, gli agricoltori, le donne, i consumatori di tutto il pianeta» riporta una nota l’osservatorio, promosso dalla Crbm, Crocevia, Fair, Fondazione per la Responsabilità Etica e numerose altre associazioni. Tradewatch chiede all’Italia di non firmare e afferma che «i maggiori perdenti saranno i Paesi più poveri e quelli in crisi come il nostro». «Le proiezioni economiche nel caso di un eventuale accordo si tradurrebbero, secondo diversi think thank, tra cui la stessa Banca Mondiale, in una progressiva perdita di posti di lavoro, in una riduzione dello spazio politico e nella perdita di entrate tariffarie per i Paesi in via di sviluppo che saranno di gran lunga superiori ai presunti benefici che deriveranno dal Development Round».
Tradewatch fa notare che se da un lato Usa ed Europa predicano la liberalizzazione dei mercati dall’altro «continuano a sovvenzionare i loro esportatori agro-alimentari, mettendo milioni di piccoli agricoltori in casa propria e nei Paesi in via di sviluppo a rischio sostenibilità. Una politica scandalosa, soprattutto se sostenuta di fronte a una crisi alimentare globale»

Dicono gli Usa
Oggi il rappresentante americano per il Commercio, Susan Schwab, ha detto che gli Stati Uniti sono pronti a lavorare per un accordo sul commercio mondiale, ma solo se le altre nazioni, in particolare quelle emergenti, apriranno i loro mercati. «Quando si tratta di negoziati commerciali, la maggior parte del contributo deve venire dalla liberalizzazione del mercato piuttosto che dai sussidi» ha spiegato. Schwab ha ribadito che Washington è pronta a dare il proprio contributo per il successo dei negoziati ma deve vedere contributi anche da parte delle economie emergenti.


Dicono i “Paesi in via di sviluppo”
All’apertura del summit odierno un comunicato congiunto sottoscritto da un vasto schieramento di nazioni in via di sviluppo afferma: «La maggioranza dei contadini del mondo abita in paesi emergenti. Essi continuano a essere oppressi da gigantesche distorsioni del commercio internazionale, create dai sussidi e dalle proibitive barriere tariffarie dei paesi sviluppati. Affrontare queste distorsioni in modo efficace è la più importante missione incompiuta del Wto».

E i Paesi emergenti?
Il ministro dell’economia tedesca Michael Glos ha chiesto ai paesi emergenti di avere più coraggio: «Paesi come Brasile, India e Cina non hanno il diritto di nascondersi dietro il marchio di paesi in via di sviluppo. Si tratta di vere e proprie potenze economiche che devono assumersi in pieno l’onore della crescita globale».


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