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Vietato discriminare i genitori di disabili

La Corte di giustizia europea estende il divieto di discriminazione anche ai genitori di disabili

di Gabriella Meroni

Il diritto comunitario tutela un lavoratore discriminato a cusa della disabilità del figlio. Infatti il divieto di discriminazione, enunciato nella direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, non è limitato alle sole persone disabili ma anche ai loro familiari. Così ha stabilito la sentenza della Corte di giustizia nella causa C-303/06, di cui riportiamo gli estremi.

La signora Coleman ha lavorato dal gennaio 2001 in uno studio legale a Londra come segretaria. Nel 2002 ha avuto un figlio, disabile, le cui condizioni di salute esigono cure specializzate e particolari, fornite essenzialmente dall’interessata.
Il 4 marzo 2005 la sig.ra Coleman ha accettato di rassegnare le proprie dimissioni, con conseguente risoluzione del contratto con il suo ex datore di lavoro. Il 30 agosto 2005 ella proponeva dinanzi all’Employment Tribunal di Londra un ricorso nel quale sosteneva di essere stata vittima di un licenziamento implicito e di un trattamento meno favorevole rispetto a quello riservato agli altri lavoratori in ragione del fatto di avere un figlio disabile principalmente a suo carico. Ella sostiene che tale trattamento l’ha costretta a smettere di lavorare per il suo ex datore di lavoro. A sostegno della sua domanda adduce diversi fatti configuranti, a suo parere, discriminazione o molestie, in quanto in circostanze analoghe i genitori di bambini non disabili venivano trattati in maniera diversa. Ella cita, in particolare, il rifiuto del suo datore di lavoro di reintegrarla, al ritorno dal congedo per maternità, nel posto di lavoro da lei occupato, il rifiuto di concederle una flessibilità nell’orario di lavoro e commenti sconvenienti e ingiuriosi espressi sia nei confronti suoi sia nei confronti di suo figlio.


Pertanto, l’Employment Tribunal si è rivolto alla Corte chiedendo se la direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro debba essere interpretata nel senso che essa vieta la discriminazione diretta fondata sulla disabilità e le molestie ad essa connesse unicamente nei confronti di un lavoratore che sia esso stesso disabile o se essa si applichi altresì ad un lavoratore vittima di un trattamento sfavorevole a causa della disabilità del figlio, cui egli presta la parte essenziale delle cure che le sue condizioni richiedono.


La Corte ricorda che la direttiva definisce il principio della parità di trattamento come l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata, in particolare, sulla disabilità e si applica a tutte le persone per quanto attiene all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione. La Corte rileva che se la direttiva 2000/78 contiene disposizioni volte a tener conto specificamente delle esigenze dei disabili, ciò non permette di concludere che il principio della parità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo, vale a dire nel senso che esso vieterebbe soltanto le discriminazioni dirette fondate sulla disabilità e riguarderebbe esclusivamente le persone che siano esse stesse disabili. Secondo la Corte, la direttiva, diretta a combattere ogni forma di discriminazione, si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì in base alla natura della discriminazione. Un’interpretazione che ne limiti l’applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili rischierebbe di privare la direttiva di una parte importante del suo effetto utile e di ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire. Riguardo all’onere della prova, la Corte ricorda che, nel caso in cui la sig.ra Coleman dimostrasse fatti che consentano di presumere l’esistenza di una discriminazione diretta, l’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento richiederebbe allora che l’onere della prova fosse posto a carico del suo datore di lavoro, che dovrebbe provare che non vi è stata violazione di detto principio.


La Corte conclude dichiarando che la direttiva deve essere interpretata nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone disabili. Di conseguenza, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia esso stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto ad un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale egli presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato nella direttiva. Riguardo alle molestie, la Corte adotta un ragionamento identico e conclude nel senso che le disposizioni della direttiva in ordine a tale punto non sono limitate alle sole persone che siano esse stesse disabili. Qualora sia accertato che il comportamento indesiderato integrante le molestie del quale è vittima un lavoratore in una situazione come quella della signora Coleman è connesso alla disabilità del figlio, un siffatto comportamento viola il divieto di molestie enunciato nella direttiva.

Consulta il testo integrale della sentenza


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