Welfare

i detenuti di Opera a lezione da Al Cappone

carcere È nata nel penitenziario milanese un'inedita fattoria intramuraria

di Redazione

Uova a km zero. Anzi, a zero metri. Uova piccole, maculate, deposte regolarmente da quaglie, piccole e quasi silenziose. Forse il motivo per cui sono state scelte le quaglie, invece che le galline, è per ovviare allo spettro del “sovraffollamento”: perché la Fattoria di Al Cappone è un allevamento sta nella casa di reclusione di Opera. Un penitenziario molto grande, il cui perimetro misura due chilometri e che ha una sezione 41 bis (tra gli altri, Totò Riina, per intenderci). Il primo carcere di Milano per rapporto dimensioni/detenuti, il carcere più grande d’Europa, contiene anche il primo allevamento di quaglie da uovo. Un progetto nuovo e curioso, nato da una onlus, Il Due, già attiva a San Vittore.
Non è un caso che nel sito web dedicato al progetto, che riporta anche i pensieri e gli scritti dei detenuti coinvolti (www.alcappone.it), da qualche parte sia scritto un verso di Eliot: «L’uomo si impegni nel lavoro più propriamente umano, costruire nel e contro il deserto il principio e la fine della strada, il senso. Perché se gli uomini non edificano, come vivranno?».
Di edificazione, di costruzione, si tratta. Di progetti solidi, concreti, che quaglino. La Fattoria di Al Cappone è stata costruita ex novo, proprio dalle fondamenta. Un docente zoonomo, Pierluigi Colombo, si è adoperato per edificare, fisicamente, insieme al personale dell’amministrazione e ai detenuti, l’allevamento. Accanto alle serre di Opera in Fiore, oggi sorgono due casette che nemmeno le mappe satellitari di Google hanno ancora rilevato. Lì, un gruppo di carcerati, sette italiani e tre stranieri teoricamente destinati a passare le loro giornate in cella, ha trovato la maniera di impegnarsi in un progetto che nasce per procurare lavoro, durante la detenzione e anche dopo. Hanno frequentato un corso di Approccio alle tecniche di allevamento avicolo, allevamenti alternativi e legislazione rurale, imparato come si alleva, come si gestisce un allevamento o come ci si può proporre – da imprenditore o da dipendente – nel settore avicolo. Dopo il corso di formazione, arriveranno le borse lavoro e, per chi sarà nei termini, una cooperativa consortile – il Consorzio Cascina Nibai di Cernusco sul Naviglio – sarà disponibile all’assunzione. Intanto le uova saranno vendute alla Coop e il ricavato reinvestito nella formazione di altri detenuti, in altre borse lavoro e nella microimpresa.
È un carcere “n-uovo”, quello di Opera, un carcere visto appunto come “Officina Libertà” (è il titolo di una mostra fotografica permanente presso il carcere, che presenta ritratti di detenuti al lavoro, opera di Sabine Biedermann), come momento di preparazione alla vita, quella dei “normali”, quelli che si alzano la mattina e vanno a lavorare.
Opera è una struttura complessa, ma lo spazio per il lavoro esiste. È un carcere con grandi potenzialità, perché ha una dimensione ampia, persone detenute con fine pena lungo, personale motivato e un territorio che “se bussi” risponde. «Un contesto favorevole che fa sì che tutti siano orientati a che le possibilità lavorative, dentro e fuori dal carcere, si concretizzino», dice Giacinto Siciliano, 14 anni di esperienza, già direttore a Monza e Sulmona, e da un anno a capo dell’istituto alle porte di Milano. «L’allevamento, insieme con la gelateria artigianale Aiscrim (un’impresa che assume detenuti in alta sicurezza, 10 per ora, ma che presto diventeranno 20) è solo una delle attività alle quali intendiamo dar corso. Ne seguiranno altre». Su un totale di 1.200 detenuti (la capienza è 1.500), nel carcere ne lavorano 350 in mansioni “domestiche” (in quota all’amministrazione) e poco più di 80 impiegati da aziende esterne. Ci sono poi 45 semiliberi.
Il lavoro, chiave di volta per una vita che va “riconvertita”, possibilità reale e non fumosa beneficenza. Chiosa Siciliano: «Il lavoro che crea davvero opportunità non può essere solo quello che ha come interlocutore lo Stato, ma le aziende. Il detenuto deve poter acquisire un modello che si confronta con le regole e il gioco di mercato. Deve diventare una persona che cammina con le sue gambe, porsi come cittadino e non “vittima” del sistema. Il carcere a questo serve, a dare delle regole. Il lavoro è un ottimo parametro per capire se e quanto ci si può reinserire nella società».

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.