Cultura

Ben venga il piccolominareto di quartiere

Quale moschea. Le proposte che vengono dalla comunità

di Redazione

Che dirà la Moratti, nei giorni dell’Expo, ai turisti di fede musulmana che chiederanno dov’è la moschea? Di andare a pregare in uno scantinato o su un marciapiede? La buttano sul glamour e sul marketing, i musulmani, convinti che, visto l’appoggio dato alla candidatura di Milano dai Paesi arabi, almeno un terzo dei 29 milioni di visitatori attesi per il 2015 sarà di fede islamica. Per dire che anche i simboli hanno la loro valenza e che far uscire l’Islam dai garage è una scelta che fa bene all’Italia e non (solo) ai musulmani.
Così come sono convinti che avere 4mila fedeli inginocchiati su un marciapiade di Milano, ogni venerdì, è indecoroso e inaccettabile per i fedeli stessi, prima e più che per gli italiani. Solo che, dice Isam Mujahed, palestinese, vicepresidente della associazione Comunità islamica di Brescia e provincia, «è come quando hai fame e tutti i ristoranti belli sono chiusi: alla fine ti accontenti anche di un bar un po’ sporco». Invece, spiega, una moschea ben fatta è un luogo più sicuro e soprattutto aiuta l’integrazione, favorendo all’esterno una percezione positiva dell’Islam e all’interno l’elaborazione di un’identità meno complicata per i giovani musulmani nati in Italia, che proprio non si vedono a pregare in uno scantinato. «Mi chiedo piuttosto che vantaggi ci sono nel lasciare le cose come stanno, con i musulmani che si autogestiscono nell’oscurità».

Moschee-parrocchie
Di moschee, in Italia, ce ne sono solo tre: Roma, Segrate e Catania. Tutti gli altri sono, giuridicamente, centri culturali islamici, ovvero locali qualsiasi, dove i musulmani si ritrovano, e dove si è finiti per organizzare anche la preghiera, ma non edifici con destinazione d’uso a luoghi di culto. La differenza non è solo burocratica. «Così negli anni si è creata confusione tra aspetti sociali, politici e religiosi dell’Islam, cosa che ha causato non tanto emarginazione quanto oscurità», denuncia Yahya Pallavicini, italiano convertito, vicepresidente del Coreis e imam a Milano, nella moschea di via Meda, questa sì con destinazione d’uso a luogo di culto riconosciuta dal Comune.
Per lui Milano ha la chance di diventare un modello per tutta Italia, visto che la soluzione nessuno l’ha ancora trovata: «Niente cattedrali nel deserto, grandi moschee in periferia, magari con un corollario di negozi, una sorta di Chinatown islamica, né soluzioni fantasiose come destinare al culto aree dismesse, con le comunità abbandonate a loro stesse: la soluzione sono tante piccole moschee di quartiere là dove i musulmani vivono e lavorano, esattamente come le parrocchie. Ma non perché i numeri più piccoli sono più facili da gestire: perché è così che si naturalizzano i rapporti tra i fedeli musulmani e il quartiere in cui vivono».

L’imam che ti meriti
L’ubicazione geografica, in verità, è solo un corno della questione: il punto decisivo è chi gestisce la moschea. «Il ministro Amato aveva messo in piedi una piattaforma federativa dell’Islam italiano. Ma se questo processo ha tempi troppo lunghi, partiamo subito dal basso, con delle consulte regionali che poi individuino un comitato promotore di gestione di luogo di culto, che tratti con il Comune e si faccia garante della formazione dei dirigenti della moschea e degli imam», dice Pallavicini.
Sembra un paradosso, ma sono l’apertura e la trasparenza della comunità a determinare quelle del suo imam, non il contrario. Ne è convinto anche Khalid Chaouki, 25 anni, ex presidente dei Giovani musulmani d’Italia, oggi direttore di Minareti.it: «La moschea in Europa, oggi, deve rispondere a standard diversi da quelli che ha nei Paesi arabi: non è necessario che sia esteticamente bella, ma è imprescindibile che sia aperta e trasparente nella comunicazione con l’esterno. Questo dipende sì dalla rappresentanza, dai gestori, ma soprattutto e in primo luogo dalle relazioni quotidiane che la comunità sceglie di avere con il quartiere».

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