Formazione

ingegneri senza frontiere

università Le storie degli studenti che realizzano progetti di sviluppo nei Paesi poveri

di Redazione

Ingegneria è uno dei corsi universitari più quotati, uno di quelli che le mamme consigliano ai figli perché l'”ing.” davanti al nome dà una certa sicurezza di trovare lavoro. In cambio, però, bisogna studiare molto. Ma c’è anche chi ha scelto di vivere questi anni guardando oltre l’impossibile esame di Analisi II e sfruttando gli studi per fare volontariato.
È con questo spirito che dieci anni fa è nata Ingegneria senza frontiere, un’associazione di studenti che oggi ha 26 sedi in altrettante facoltà. «Esisteva qualcosa di simile in Francia e in Spagna», racconta Stefano Francese, coordinatore nazionale. «Noi a Torino l’abbiamo copiata, ma abbiamo voluto creare uno spazio di impegno riservato solo agli universitari. Perciò abbiamo cambiato il nome, da Ingegneri a Ingegneria». Due sono i settori di attività: la formazione e la cooperazione internazionale. «Approfondiamo temi sociali, sempre nel nostro ambito di studio, e cerchiamo di farli conoscere agli altri studenti attraverso conferenze e incontri. Poi collaboriamo con alcune ong su progetti specifici, dalla raccolta differenziata alla creazione di reti telematiche. E siamo impegnati in Burkina Faso con il Cisv per creare un bacino idrologico che raccolga le acque piovane». I numeri dei volontari sono altalenanti, a seconda dei periodi. Va meglio per il gruppo di Milano, aperto anche a professori e ingegneri professionisti: «Quanto a impegno, loro ci danno una certa sicurezza», conferma la presidente Irene Bengo, «e sono anche un aiuto per gli studi». Tra i tanti progetti, il gruppo del Politecnico ne ha messo in piedi uno per le scuole superiori: «Andiamo nei licei a parlare di risparmio energetico e sviluppo sostenibile. Cerchiamo di far partecipare i ragazzi ai problemi del mondo». L’organizzazione è su base federale, ma esiste un coordinamento nazionale che fa da collegamento. Ma, come conferma Bruno Laganà, presidente di Isf Firenze, ognuno ha le proprie idee da portare avanti: «Negli ultimi anni abbiamo costruito due centri informatici a Kinshasa, in Congo. Noi ci occupavamo della rete, dei software e della formazione dei responsabili, la ong con cui collaboravamo ha fatto il resto. Per il secondo centro abbiamo avuto anche l’aiuto delle sedi di Roma, Pisa e Milano».
Anche i volontari fiorentini si sono dati da fare nella propria zona. «Con un gruppo di professori», continua Bruno, «abbiamo organizzato un corso di informatica al carcere di Prato, dove l’università di Firenze ha un distaccamento». Un impegno che sta ottenendo il riconoscimento delle istituzioni: «Abbiamo dato vita al Premio Tattarillo per le migliori tesi sulle tecnologie per lo sviluppo. Quest’anno la premiazione si è svolta in Palazzo Vecchio, con il patrocinio del Comune. Ci teniamo perché è intitolato a Tommaso Fiorentini, un nostro amico scomparso, e perché è un modo per spingere i ragazzi a interessarsi di certe tematiche». Insomma, in barba a chi dice che in missione servono soltanto gli operatori umanitari. «Be’, in caso d’emergenza io non saprei fare niente», risponde Bruno, «ma a me sembra naturale che un ingegnere metta a disposizione le proprie conoscenze per aiutare chi ha bisogno».


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