Welfare

Usa, Washington Post denuncia: «La Cia tortura i prigionieri»

Violenze fisiche e psicologiche sui prigionieri di Al Qaida detenuti in basi fuori dal territorio americano

di Gabriella Meroni

In piedi o in ginocchio per ore, privati del sonno e intimiditi psicologicamente. Oppure convinti da accurate finzioni di trovarsi nelle mani della polizia di un governo senza scrupoli. I prigionieri di guerra legati ad Al Qaida da mesi stanno sperimentando il volto duro dell’America: la Cia in gran segreto sta conducendo interrogatori al limite della tortura (e talvolta oltre), al riparo da occhi indiscreti. A sollevare il velo sulle pratiche utilizzate dagli Usa per ottenere risultati nella guerra globale al terrorismo e’ stato il Washington Post, che ha raccolto i racconti anonimi di vari funzionari d’intelligence e di governo, americani ed europei, coinvolti negli interrogatori. La Cia, a cui e’ affidato il compito di convincere i prigionieri a parlare, da un anno ha deciso di avere meno scrupoli sul piano dei diritti umani e con i detenuti particolarmente duri ha scelto di aggirare l’ostacolo con un espediente che si presta a critiche: li affida a paesi arabi dove il ricorso alla tortura e’ documentato da anni. I risultati della linea dura, a quanto pare, cominciano a diventare significativi: negli ultimi mesi sono stati catturati o uccisi numerosi leader di Al Qaida, quasi sempre grazie a informazioni raccolte negli interrogatori. Dall’11 settembre 2001, si calcola che siano stati catturati dagli Usa circa 3.000 presunti seguaci di Al Qaida o sostenitori dell’organizzazione di Osama bin Laden, di cui 625 attualmente si trovano nella base militare americana di Guantanamo Bay (Cuba), privi di assistenza e diritti legali. Ma mentre a Guantanamo la Croce Rossa e gruppi di giornalisti hanno potuto documentare in questi mesi le condizioni dei detenuti, e’ totale il segreto che circonda gli altri prigionieri, racchiusi in un’area superprotetta nella base di Bagram, in Afghanistan, o sull’isola Diego Garcia, nell’Oceano Indiano. E’ qui che la Cia, stando alle rivelazioni, sta utilizzando metodi di interrogatorio all’ insegna di ”tensione e durezza”. Per vincere le loro resistenze, i detenuti vengono tenuti incappucciati o con occhialoni scuri, costretti a stare per ore in posizioni scomode o privati del sonno. Come ricompensa, chi collabora riceve interrogatori amichevoli, rispetto umano e sensibilita’ culturale e talvolta anche soldi. Ma per chi resiste, le conseguenze sono dure. Come in un set di Hollywood, la Cia talvolta fa credere ai prigionieri confusi di essere finiti in un altro paese arabo, noto per la brutalita’ dei suoi interrogatori, sperando cosi’ di intimorire i presunti terroristi. Altre volte li fa interrogare e umiliare da agenti donne, un’esperienza psicologicamente devastante per uomini che provengono da culture islamiche integraliste. Quando la Cia da sola non riesce ad ottenere le informazioni che cerca, lascia fare il ‘lavoro sporco’ a paesi terzi, come la Giordania, l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Marocco, lo Yemen e in almeno un caso documentato anche la Siria, nonostante sia ritenuta dagli Usa un paese ostile. Qui i prigionieri possono andare incontro a disparati metodi di interrogatorio, compreso il ricorso a sostanze chimiche come il pentothal, un siero della verita’ che vince le resistenze mentali. La Cia non ha commentato le rivelazioni del Washington Post, che peraltro non fanno che confermare indiscrezioni gia’ circolate da tempo. Alcune settimane fa, in un’audizione al Congresso, il capo del controterrorismo alla Cia, Cofer Black, spiego’ che i metodi di interrogatorio attuali erano diventati ”estremamente flessibili: si tratta di un’area top secret, ma quello che posso dire e’ che c’e’ stata un’epoca pre-11 settembre e una dopo l’11 settembre. In quest’ultima epoca – ha concluso Black – ci siamo tolti i guanti”.


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