Cultura

l’Alice del duemila non guarda più i gatti

debutti Il mondo degli adolescenti visto da Paolo Giordano

di Redazione

Non avrei mai immaginato che imbattermi nella copertina di un libro nel giorno della sua pubblicazione potesse sciogliermi subito in un pensiero forte e addirittura solidale. Facile è stato invece accorgermi che l’intensità di un giovane sguardo femminile dietro foglie smarginate fosse la premessa e la promessa di una trama importante. Racchiusa in una bella foto involucro che, grazie a un casuale gioco di somiglianza con una sua brava interprete, richiama la parte migliore del giovane, vituperato, vitale cinema italiano.
La storia, nel romanzo La solitudine dei numeri primi, opera prima di Paolo Giordano, 25 anni, ha in un incidente e in una sparizione i fatti propulsori, nel peso irreversibile delle conseguenze il nodo più puro, assoluto. Bambini che si fanno spugne delle ambizioni represse dei padri, giovani nella fase nevralgica e adolescenziale del loro divenire, adulti sono Alice e Mattia, protagonisti di questo romanzo dai 7 ai 31 anni.
Alice non è proprio un’incantata contemplatrice di gatti che a loro volta guardano nel sole; Mattia tace sempre, nutrito dall’illusione lucida che gli individui silenziosi possano attenuare il disordine del mondo. Dentro di loro serpeggiano delle A fibrillanti di dolorosa pregnanza: le iniziali di Anoressia, Autolesionismo, Abulia.
Il palcoscenico è quello dei teenagers in branco. Nella parte iniziale della trama tiene bene la scena e sembra riprodurre un mosaico tipico, che sorprende per lo stridore di più tessere colorate a contrasto accostate, nello stesso modo in cui fa male, in un gruppo, la collisione fra sensibilità differenti. Denis, Federica, Giada, Giulia, Selene, Viola ondeggiano fra la normalità delle mattine a scuola e gli impacci tipici delle feste tardo-pomeridiane del sabato, a casa. Mentre nel romanzo la naturalezza dei problemi più quotidiani e il peso dei pregiudizi più comuni s’incontrano con un realismo lucido, a tratti gelido.
Prendono molto, nella lettura, la ferocia di un bullismo declinato al femminile, l’omosessualità a uno stadio embrionale di riconoscimento, quando è ancora bassa l’autostima e perciò è anche sconosciuto il modo per alleggerire il macigno dei sensi di colpa. E resta sempre alta, nel seguito della storia, la temperatura di un’immedicabile sensibilità del lettore all’ipersensibilità dei protagonisti. Perché le loro vicende, da adulti impaludati in un’incomunicabilità a due e con il mondo, sono sempre trattenute dall’impegno fermo a mai scoprirsi l’anima, e le loro emozioni vanno implodendo in uno stato di pericolosa, piatta neutralità.
Paolo Giordano scrive in modo pulito ed essenziale, con un nitore che garantisce, in tutto il corso della narrazione, incisività forte alle problematiche che nutrono la trama. Gli stati emozionali, veramente tanti e vari, sono espressi con similitudini di pregio, costruite con maestria.
Il protagonista Mattia, nei passi migliori del testo, sembra essere guidato dall’autore a soffermarsi, con tecnica metaletteraria, sulla forza delle parole, sul potere evocativo che esse sottendono. In un punto indimenticabile il panico arriva a materializzarsi in molecole visibili, che fluttuano vorticose e indomabili. È evidente che la scrittura razionale e lucida di Giordano si fa leggere ovunque come il corrispettivo letterario della sua professione: ricercatore universitario di fisica teorica.

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