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Cuba, transizionesenza troppe ansie L’autore di questo diario è nell’isola dal 1995. Ha seguito un progetto di riqualificazione urbana a L’Avana del Cospe.«Qui tutti dicono “vamos a ver”» di Fabio Alberti

Dopo Castro E adesso che cosa cambierà

di Redazione

Quando sono sbarcato a Cuba nel 1995, in pieno “periodo speciale”, l’annuncio che Fidél ha fatto lo scorso 19 febbraio rinunciando alle cariche di presidente della Repubblica, di capo del governo e di comandante supremo delle Forze armate, poteva al massimo appartenere agli auspici più arditi di alcuni o alla fantapolitica di altri. In quel momento così critico per Cuba – per gli effetti disastrosi dello sgretolamento prima e del crollo repentino poi del blocco dei Paesi socialisti di sfera sovietica – Fidél era protagonista della resistenza del suo Paese e dei cambiamenti a livello legislativo e addirittura di riforma costituzionale.
Un periodo che ha creato molte aspettative ma che, dopo aver attraversato territori inospitali con perduranti problemi economici e sempre più evidenti contraddizioni sociali, non ha ancora prodotto risultati o reali cambiamenti. Noi eravamo lì per partecipare al programma di cooperazione internazionale Habana-Ecopolis, un programma di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile, promosso e ancora oggi portato avanti da Cospe, Cric, Legambiente, Arci e UniFi, e che nasceva per lavorare con organizzazioni, istituzioni e persone cubane sulle nuove opportunità che il “periodo speciale” offriva.
Negli ultimi 10 anni abbiamo continuato a lavorare a Cuba potendo osservare gli eventi da un osservatorio privilegiato come la capitale, centro politico ed economico del Paese. Abbiamo accompagnato gli sforzi di chi intende resistere alle scorciatoie che passano per le “opportunità” della doppia economia (peso cubano contro peso convertibile equiparato al dollaro) fonte di disuguaglianze, abbiamo condiviso le frustrazioni per gli altalenanti cicli di quel Paese, che a momenti di apertura politica ed economica ha fatto sempre seguire chiusure e ristrettezze; abbiamo condiviso la dignità e il desiderio dei giovani di lavorare per un futuro dove libertà e opportunità siano compatibili con la salvaguardia della sovranità nazionale, dell’istruzione e della salute pubbliche gratuite per tutti. In questi anni è certamente aumentata la frequenza della fatale domanda sul “dopo Fidél”, ma si è anche radicato nella gente un sentimento e un atteggiamento di cautela e di pragmatismo. Ne sono causa la necessità di risolvere un quotidiano pressante, la mancanza di un confronto politico pubblico su opzioni diverse possibili, e le contraddizioni di un gruppo dirigente che ha voluto comprimere al proprio interno una dialettica che non trova riflessi nella società.
Quando il 19 febbraio, la proprietaria della casa dove ho affittato una stanza a L’Avana mi ha detto, con un misto di emozione e di rassegnazione, «stai vivendo un giorno storico per Cuba», ho pensato a tutto questo. Nel tragitto da casa all’ufficio di Habana-Ecopolis tutto appariva come sempre: poco traffico, persone che camminavano lentamente alla ricerca dell’ombra, altre che aspettavano l’autobus, altre ancora che facevano autostop. Da quasi tutte le persone con cui ho parlato l’annuncio è stato letto come una dimostrazione di dignità. Va bene, ma adesso? Incertezza? Senso di perdita? Oppure speranza di cambiamento? Le risposte sono state tutte improntate a un forte pragmatismo: sono in molti pronti ad affermare che questo non implichi né immediatamente né necessariamente significativi cambiamenti. «Vamos a ver», «Vediamo», questa è stata l’espressione ricorrente. Dopo la proclamazione di Raul come successore di Fidel da parte dell’Assemblea Nazionale, ciò che conterà sarà soprattutto ciò che Raul deciderà o meno di dire, se formalizzerà l’inizio della transizione guidata, quali tappe e quali contenuti indicherà eventualmente per tale transizione. Solo allora sapremo se si sarà già aperta un’epoca in cui tornare a mettersi in gioco o se si dovrà ancora aspettare. Vamos a ver.

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