Famiglia

Una fotografia fedele.Cosa fare per cambiare

Riflessioni sulla ricerca Cinque punti di vista nella tavola rotonda

di Redazione

Franca Olivetti Manoukian,
psicosociologa
Dalla ricerca ricaviamo che le organizzazioni di volontariato non hanno così tanto valorizzato le opportunità di partecipazione previste nei Piani di zona. I dati quantitativi presentati hanno messo in luce che sono presenti se sono invitate e se l’invito non è troppo formale, quindi se ripetutamente sono state sollecitate dai Comuni, o dai capofila dei Piani. E questo dato che cosa ci dice? Ci dice che la società in cui viviamo non è semplice, non è omogenea, non è ingenua, non è trasparente, non è immediatamente rivolta a preservare leggi del bene comune, è invece una società frammentata, frazionata, in schieramenti e appartenenze, in aggregazioni che tendono a contrastarsi, in istituzioni che si pongono come depositarie di norme e procedure e in gruppi che rivendicano contatti più diretti e fattivi con i problemi e con le difficoltà da affrontare. La partecipazione non è una formula magica che può prescindere da tutto questo e che è in grado di realizzarsi neutralizzando tutte queste articolazioni stratificate e tortuose. La partecipazione non rende automaticamente possibili i confronti aperti tra i potenziali interlocutori alla costruzione del Pdz.
Altro elemento è che cosa ci si aspetta dalla partecipazione. Spesso si chiede una conferma della propria possibilità di influire. E poi spesso si è delusi, perché ci si vede inascoltati. Quello che dobbiamo costruire non è nella nostra casa, è nel sociale. Se il volontariato è un volontariato che investe nella costruzione di legami sociali, nella ricerca del bene comune, porta a casa qualcosa per sé o per tutti? È importante portare a casa propria o portare qualcosa nella casa comune?
Donatella Barberis, resp. Ufficio di Piano distretti Casalpusterlengo e Lodi
Per la mia esperienza, vedo due momenti nel processo di programmazione. Il primo momento è quello dell’analisi dei problemi e delle indicazioni su quali possibili progetti si possono fare come territorio. E questa è una fase che non presenta particolari problemi. La parte spinosa è quando si entra nel vivo della progettazione partecipata perché è qui che si cominciano ad avere degli spiazzamenti. Le associazioni sono abituate a progettare a partir da sé o a mettersi in rete tra di loro; ma lavorare con gli altri, con tutti gli altri, è proprio un movimento un po’ nuovo. La progettazione partecipata vuol dire lavorare insieme agli altri, qui ci vogliono delle tenute di coordinamento e di regia. Questa è la parte più difficile. L’altra parte è mettere in fila i soldi, i progetti e i problemi. Perché la questione è rovesciare il triangolo, all’apice ci sono sempre stati i progetti: facciamo i progetti, andiamo a cercare le risorse e poi questa cosa comunque servirà. Invece se rovescio e metto in cima il territorio e i suoi problemi trovo il criterio per capire quali progetti servano e quindi come utilizzare le risorse. Si sfavorisce l’autoreferenzialità, i progetti che nascono a partire da sé devono essere o messi da parte o riconfigurati all’interno di progetti più comuni e soprattutto si corresponsabilizza il destinatario finale che è anche il committente, le scuole, i Comuni che a volte subiscono certe progettualità perché non hanno voce in capitolo.

Eugenio Riva, presi, Urasam, Unione regionale associazioni salute mentale
L’Urasam rappresenta 64 associazioni sparse sul territorio lombardo e ha creduto molto nella 328. Ci riconosciamo molto in quello che ha sottolineato la ricerca e ribadiamo che il punto è capire bene cosa significa per l’organizzazione di volontariato essere attore nei Piani di zona: è un qualcuno che non vive solo di rendita, ma è un qualcuno che veramente dà, che dà per specificità in accordo con tanti altri. Il volontariato deve mantenere la propria identità di risorsa etica. I volontari sono chiamati ad acquisire una connotazione di politicità istituzionale nel compiere le indagini conoscitive per la ricognizione dei bisogni, nelle proposte, nel tracciare i lineamenti progettuali degli interventi. Mettere insieme ai tavoli del Pdz i rappresentanti del volontariato e gli operatori professionali significa rendere interattive le positività degli uni e degli altri, ovvero porre sul piano della reciprocità il bagaglio esperienziale dei volontari.

Francesco Longo,
direttore Cergas Bocconi
Un paio di anni fa avevo fatto in università una valutazione di tutti i Pdz della Regione Lombardia ed è venuto fuori che in media programmano tra il 2 e il 5% delle risorse, quindi il 95% delle risorse non passa dalla programmazione ma conferma le spese correnti. Dall’altro lato, però, c’è un fortissimo investimento dei Piani di zona nei processi di programmazione, quindi possiamo dire che c’è una grandissima enfasi sulla rappresentanza: importante è esserci, dopo di che questa rappresentanza produce soprattutto identità. Evidentemente l’oggetto del lavoro non è la programmazione.

Martino Villani, direttore Csv Como
L’indagine ci dice che i servizi che vengono erogati dai Csv sono diversi, sono di vario tipo, diversi a seconda dei territori ed anche erogati in maniera diversa. La ricerca dice che la soddisfazione rispetto a questi servizi è altissima, oltre il 90 %, dice anche che l’utilizzo di questi servizi è bassissimo: il dato per quello sulla comunicazione (18%) è un dato estremamente preoccupante. Io credo che ci siano due cose da fare: uno, motivare le associazioni a utilizzare questi servizi e quindi diffondere maggiormente le competenze necessarie alla partecipazione alla programmazione zonale. Due, occorre che ci sia uno scambio di buone pratiche tra i Csv per capire quali sono le modalità più opportune per tradurre poi questi servizi ai vari territori.


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