Non profit
Nella fabbrica del donoc’è un tesoro da 85 miliardi
Fondazioni sotto la lente Boom degli enti non profit che crescono del 57%
di Redazione
Nell’Italia che fatica a diventare grande, inchiodata a uno sviluppo economico minimo dal terrore di restare piccola, c’è un’industria che viaggia controcorrente. Ha tassi di crescita galoppanti (+57% nel giro di sei anni), un patrimonio complessivo di 85 miliardi di euro (quasi quanto capitalizza un colosso come UniCredit), vanta 4.720 centri “produttivi” sparsi su tutto il territorio, e impiega un esercito di oltre 156mila addetti ai lavori che offrono servizi a una platea di 16 milioni di italiani.
Il core business? Filantropia e dintorni. Il ritorno degli investimenti? Un forte impatto sociale. I nuovi soggetti che spuntano come funghi in tutta la Penisola (più nel Nord-Ovest che altrove, con una quota del 44,2% sul totale) sono le fondazioni. Lo documenta la prima rivelazione Istat sul tema delle istituzioni del non profit. Il fenomeno non è nuovo e non è solo italiano. Mentre il Welfare State perde i pezzi, la società civile, le imprese e il terzo settore mettono su i mattoncini di un modello sociale innovativo che ha nelle fondazioni il suo avamposto operativo. Riunite sotto il cappello di una immaginaria holding, le fondazioni italiane sarebbero una multinazionale doc, con una potenza di fuoco pari a quella dei colossi di Wall Street.
Ma la crescita vorticosa degli enti non profit non è solo legata allo spirito filantropico degli italiani. Anzi. In buona parte è imputabile al processo di privatizzazione delle Ipab (istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza) e alla conseguente trasformazione in fondazioni di alcune di esse. Tuttavia la maggior parte dell’universo fondazionale italiano funziona un po’ come il tessuto produttivo ed è di origine familiare. Oltre la metà di queste, infatti, è costituita da persone fisiche. Si tratta di pmi della filantropia: il 73% impiega meno di 10 persone, piccole botteghe solidali, della cultura, dell’arte o dell’impegno, in ricordo di un parente o di una personalità di spicco.
Non a caso il 24% delle nuove fondazioni – quelle nate negli ultimi sei anni – sono nate per volontà di istituzioni non profit. Un dato che diventa ancora più marcato nel Mezzogiorno, dove un ente su tre è figlio del terzo settore. In Centro Italia, invece, le statistiche riscontrano un forte dinamismo di entrate e cospicui patrimoni, «un’anomalia che si spiega con la presenza a Roma delle sedi delle fondazioni di origine previdenziale dei professionisti, come l’Enasarco o l’Enpam». Tutto lecito e tutto legale, ma che ha poco a che fare con la filantropia, «specialmente nel caso delle fondazioni create dalla pubblica amministrazione. Ci attendiamo in questo campo un doppio canale fiscale per fondazioni che operano davvero nel sociale e le altre che invece sono strumenti del pubblico». Tra le note più positive, secondo Demarie, «c’è il crescente interesse per le fondazioni di impresa. Molte aziende hanno costituito per le proprie politiche di responsabilità sociale e di corporate philanthropy, ma siamo ancora lontani dal dinamismo e dalla diffusione anglosassone».
Sono i numeri, ancora una volta, a impressionare. «Si tratta nel complesso di quasi 4 miliardi di euro di erogazioni destinate ai settori prioritari del welfare, la cifra più alta mai raggiunta dal settore privato, di cui hanno beneficiato, direttamente e indirettamente, milioni di italiani. Questo dato è destinato ad influire anche sugli scenari del fundraising italiano, introducendo nuovi criteri di valutazione dell’impatto dell’investimento filantropico e nuovi modelli di partnership tra soggetto erogatore e beneficiario».
I servizi più offerti, relativi all’erogazione di premi e borse di studio (15%), alla realizzazione di convegni, seminari e congressi (13,2%), all’istruzione prescolastica (12,8%), all’assistenza in residenze protette (12,5%) e al finanziamento di progetti socio-assistenziali (12%). Secondo Stefania Mancini, di Fondazione Charlemagne, è venuto il «momento di pensare in rete per sfruttare la meglio le potenzialità delle fondazioni, ma allo stesso tempo bisogna evitare la tentazione di sostituirsi al terzo settore. L’importante è essere al servizio del non profit e impedire che avvenga il contrario».
«Il rapporto Istat non mi convince», afferma, «e rischia di essere fuorviante. La stessa definizione del concetto di fondazione è alquanto generica e non fa riferimento alla definizione accreditata in ambito europeo che permetterebbe ai dati di essere comparabili con quanto prodotto in altri Paesi europei. E il loro operare viene riassunto complessivamente in una categoria denominata genericamente “filantropia” assimilata ad altri settori e posta nella stessa colonna di “cultura – sport – istruzione”. Viene il sospetto che questa generica categoria si riferisca al vecchio concetto di beneficenza».
«In tal caso», continua Giuliana Gemelli, «si tratterebbe di un bel rispecchiamento del senso comune: in Italia infatti la maggior parte delle persone – e tra queste anche alcuni studiosi – considera ancora la filantropia come munus, atto di elargizione e distribuzione gratuito, senza scopo e senza reciprocità in termini di ritorno sociale».
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