Non profit

in Afghanistananch’io ho sempreda imparare

testimonianze Alberto Cairo racconta i suoi 18 anni a Kabul

di Redazione

Un proverbio afghano dice che ogni uomo ha un prezzo, si può comprare. Tranne gli afghani. Quelli si possono solo affittare e pure per un tempo breve. Credo sia vero. La gente afghana è gente orgogliosa, fiera, bella, a volte arrogante senza averne ragione. Lavorare qui è difficile. Arrivi con molta esperienza sulle spalle, molte idee in testa, ti metti a fare, e senza accorgertene finisci per commettere ingiustizie e fare del colonialismo umanitario. Nel 1990, quando sono arrivato, ho aperto il centro di riabilitazione di Kabul e ho messo alcune regole: avremmo curato solo feriti di guerra e solo se sussistevano le condizioni di sicurezza, cioè solo se non bombardavano. La riabilitazione, pensavo, non è un’urgenza: può anche aspettare. Guardando indietro, io so di aver fatto un sacco di sbagli perché non ascoltavo gli altri e non vedevo la realtà.

Mahmud
Bombardavano, io ero stanco e della sofferenza dei malati non volevo più saperne. Guidavo veloce, più che potevo, rientrando a casa sotto le bombe. A un certo punto una bomba cade proprio di fianco alla strada che stavo percorrendo. Accosto, mi butto a terra, vedo che tutti scappano. In mezzo alla strada vedo che resta solo un uomo. Non si muove, è in carrozzina. Io non sono un mostro di coraggio, ma mi avvicino, vedo che non ha le gambe e un braccio e che dietro alla carrozzina c’è un bambino. A quel punto faccio una domanda stupidissima: cosa fai in giro? «Lavoro», mi risponde lui. «E perché non sei venuto a prendere le gambe?». «Avete chiuso». Era vero, era la mia regola, quando si bombarda. Gli dico di venire il giorno dopo, pensando di non rivederlo mai più. L’indomani vado al centro, arrivo e trovo lì 40 dei miei dipendenti e una quindicina di uomini senza gambe. Scopro che tutti i giorni i miei andavano al centro sperando si potesse lavorare e che tutti i giorni c’era gente che si presentava sperando di poter ricevere le protesi. La mia idea crollava. Anche la riabilitazione è urgente. Mahmud ha avuto le sue gambe e con pazienza ha imparato a camminare. Un giorno cade una bomba, tutti corriamo, anche Mahmud. Quando arriviamo nel rifugio, suo figlio gli dice orgoglioso: «Papà, hai corso più veloce di me».

Jawad
Tutti pensano che in Afghanistan i disabili siano solo quelli vittime della guerra. Ma ci sono anche deformità congenite, poliomelite? Un giorno al centro si presenta una donna con un bambino di 10 anni, poliomelitico. La madre mi dice: «Fai qualcosa». Non posso, le dico: ci occupiamo solo di feriti di guerra, ce ne sono già troppi. «Ma lui ha bisogno», insiste. E poi mi dice che se non l’ha vaccinato è per via della guerra, quindi a voler ben guardare anche lui è una vittima della guerra. A tradurre c’è il mio fisioterapista, Najudin, che è anche il mio braccio destro. Lui è saggio, cosa che io non sempre sono. Lui mi fa: «Perché non ci insegni a curare la polio?». Curare la polio è più complicato che fare rieducazione per chi ha una gamba amputata: serve la chirurgia, bisogna fare i conti con posture scorrette, deformità. «Noi siamo disposti a venire un’ora prima al mattino, gratis». Il lavoro che abbiamo fatto con Jawad è stato molto doloroso per lui. Abbiamo dovuto tirarlo, ingessarlo, ma non si è mai lamentato. Tutti i pazienti a un certo punto odiano il medico, quando le cure sono lunghe: lui non lo ha mai dato a vedere. Jawad migliora, non cammina ma migliora. «Il cervello però ce l’ha buono», mi dice un giorno la mamma. «Deve andare a scuola». Lei vuole che noi gli mandiamo un insegnante a domicilio, perché tutte le scuole del quartiere lo avevano respinto. Io mi oppongo, cosa c’entra la scuola con la sanità. Mi convincono, come sempre. Jawad aveva 11 anni, in due anni ha fatto otto classi. A 14 lavorava part time al nostro centro per inserire i dati dei pazienti nel database. Da allora è lui che mantiene la famiglia.

Abdullah
Abdullah ha 35 anni e prima della guerra faceva il giudice. Moab ha 20 anni. Sono entrambi midollolesi, in carrozzina. Mi tormentavano dicendo che non facevamo abbastanza per quelli come loro. Molti di loro sono prigionieri nelle loro case, che non sono certo fatte a misura di carrozzina. «Noi avremmo un’idea», mi dicono. Il fatto è che inventare cose è facile, ma poi bisogna anche gestirle. Partono con una serie di microprestiti, mettendoci un mese per selezionare 10 persone. Dopo un mese, questi dieci restituiscono tutti i soldi. Io mi entusiasmo, però voglio accorciare i tempi: a me le loro trattative sembrano infinite ed estenuanti. Scelgo io 20 persone: dopo un mese mi restituiscono i soldi in tre. Ci riprovo con altri 10: ne torna uno. Mossi a pietà, Abdullah, Moab e Najudin mi dicono: «Lascia stare, ti aiutiamo noi. Però alle nostre condizioni».

Ecco, queste persone mi hanno insegnato tutto. Ascoltare è un modo per alleviare il dolore degli altri. Io non penso molto al perché c’è il dolore nel mondo, di chi è la colpa? Non sono un uomo di grandi riflessioni. Ho smesso anche di pensare «Oddio, cosa abbiamo fatto» ogni volta che c’è un attentato o che cade una bomba. Io vedo il dolore degli altri e faccio quello che posso per alleviarlo. E credo che il dolore sia essenzialmente una ingiustizia.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.