Economia
Lavorare bene, lavorare in tanti
Il terzo rapporto Cgm-Fondazione Agnelli
Sfida. Se c?è una parola in cui si possa condensare tutta l?essenza del Terzo rapporto sulla cooperazione sociale in Italia, curato dal Centro studi Cgm e edito dalla Fondazione Agnelli (con il contributo della Manodori di Reggio Emilia), è proprio questa. Lo ha detto bene Johnny Dotti, fresco di presidenza al Consorzio più grande d?Italia (si veda la sua intervista a pag. 21), intervenendo venerdì 7 giugno alla presentazione della ricerca, Comunità cooperative (pagg. 323, 17 euro), coordinata da Flaviano Zandonai del Centro studi Cgm e da Carlo Borzaga, direttore dell?Istituto di studi sullo sviluppo delle aziende non profit.
Sfida «a essere istituzioni di comunità», «sfida democratica in questo variegarsi di soggetti sociali» e «sfida al mercato economico», dice Dotti. «Perché questo mondo deve dimostrare di essere un pezzo di storia e non un accidente della storia».
I numeri di un boom
I numeri sembrano già dare ragione al neopresidente. I curatori delle ricerca hanno elaborato i dati del ministero del Welfare, quelli dell?Inps, quelli delle Regioni (là dove esistono) per ricavare una base affidabile, quindi hanno stimato una crescita ?prudenziale? del 10% annuo dal ?99 al 2001. Ne emerge un quadro significativo: 5.600 cooperative sociali, suddivise in di tipo A, 55%, di tipo B, 40% e ad oggetto misto (in prevalenza consorzi), 5%. Imprese sociali in cui lavorano 158mila persone di cui quasi 15mila svantaggiate. Oltre agli operatori retribuiti, riconoscendo le finalità sociali di queste organizzazioni, collaborano con le cooperative sociali circa 23mila volontari.
L?insieme di queste risorse genera un giro d?affari non trascurabile, stimato, per il 2001, in 7mila miliardi di lire (erano 5.839 nel ?99) pari a a 3,6 miliardi euro.
Un fenomeno consistente anche dal punto di vista occupazionale. Al di là dell?ammontare assoluto nel numero di posti di lavoro creati, colpisce soprattutto il peso relativo rispetto al Terzo settore. «Le cooperative sociali, infatti, rappresentano poco più del 2% delle organizzazioni censite, ma generano il 23% dell?occupazione remunerata dell?intero settore», dice Zandonai.
Una crescita che uniforma l?Italia della cooperazione. Se infatti all?inizio degli anni 90 era il Nord a fare la parte del leone, i primi dati del decennio successivo testimoniano un recupero del Mezzogiorno.Nel 2000, il 41% delle coop stava nell?Italia settentrionale, il 19 al Centro e il 40 al Sud. Anche se Zandonai mette le mani avanti: sulla cooperazione al Sud «potrebbe gravare una certa tendenza degli enti locali a stabilizzare i lavoratori socialmente utili».
Fotografando invece le entrate delle coop, si capisce che il core business è ovviamente l?assistenza sociale dalla quale provenivano (nel ?99) 3.600 miliardi di vecchie lire. A seguire la sanità, con 793 miliardi, lo sviluppo economico (698) e la cultura (181).
Modelli cooperativi
Oltre alle cooperative, cresce anche la consapevolezza che il lavoro in rete paga. «I consorzi sono ormai oltre 200». Anche se «una parte, non residuale, della cooperazione non è legata a reti di questo o altro tipo». E se al Nord il fenomeno riguarda almeno 70 cooperative su 100, nel Mezzogiorno si scende a 40. Significa qualcosa, «che la strada del consolidamento al Sud è già segnata: rafforzare le reti».
Altro dato chiaramente leggibile è la biforcazione fra single e multistakeholder, ovvero coop composte da soli lavoratori, il cui fine principale è la mutualità, e cooperative dove sono anche altri i portatori di interesse. «La cooperazione è a un bivio», dice Borzaga, «deve scegliere se passare dalla mutualità alla solidarietà».
Il capitale umano
Il Rapporto contiene anche un interessante affondo sul capitale umano. L?hanno curato Borzaga e Sara Depedri, analizzando un campione di operatori dei servizi sociali di enti profit, pubblici e non profit (associazioni, religiosi e cooperativi).
Il personale delle coop emerge per una forte motivazione. «Il lavoratore, ad esempio, ha la percezione di essere pagato in maniera giusta, non tanto in termini assoluti», spiega Borzaga, «ma in rapporto alle possibilità dell?organizzazione». Dato questo, assicura il professore, sconosciuto altrove. Il motivo: «Organizzazioni trasparenti, bilanci noti: soci e i lavoratori sanno quanto possono essere retribuiti». Tuttavia, avverte lo studioso, «questo elevato tasso di soddisfazione del capitale umano è del tutto casuale o almeno il frutto di fattori non sistematizzati. Il management», sottolinea, «deve cominciare a gestire questo enorme vantaggio».
Di nuovo una sfida. «Sì, perché sta già accadendo che per trattenere la dirigenza si cominci a pagare di più gli alti livelli», sottolinea. «Se la situazione non si equilibra, il rischio è che la percezione di equità venga meno». Contromisure? «Ripagare gli altri lavoratori, in termini di prospettive di carriere più chiare e concrete», risponde, «e con l?avvento delle forme consortili non è impossibile: un lavoratore comincia in una coop, passa al consorzio, prosegue in coop più grande ecc».
Valorizzare il proprio capitale umano, «anche lanciando proposte nuove», aggiunge il professore, che fa l?esempio della pratica di trasferire il personale da una coop all?altra in caso di cambio di appalto. «Un errore», spiega, «che sacrifica le motivazioni di quei lavoratori. Allora, meglio la cassa integrazione». Prego? «Certo, consentirebbe il riposizionamento di quegli addetti in seno alla propria organizzazione. Del resto, la cig non l?ha inventata lo Stato, ma è frutto di un accordo».
Ultimi ma non per ultimi, i volontari. Ce ne sono ancora tantissimi. A conferma dell?elevato tasso di idealità che ancora permea queste imprese sociali. «Senza contare il vantaggio economico che apportano», nota. «Calano fisiologicamente quando le coop si strutturano», chiarisce, «e magari si spostano dall?operatività a settori molto qualificati come il management».
Comunque, che i volontari restino. «Fondamentali, perché sono sensori e evitano l?autoreferenzialità della cooperativa. E poi dove ci sono volontari, i lavoratori sono pagati meno: le richieste dei dipendenti sono compresse. Richieste anche legittime ma che devono essere compatibili con la struttura».
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