Non profit
Il fallimento dei tromboni
Il rapporto Censis fotografa un'Italia stanca e svuotata politicamente e culturalmente
Chissà se i libri di storia ricorderanno l?Italia di questo inizio millennio come il Paese che spendeva ogni anno 12 miliardi (di euro) in scarpe e che metteva 20mila ragazzine in fila con il sogno di diventare Veline? è triste supporlo, ma è altamente probabile che così accada, ammesso che nei libri di storia questa Italia abbia qualche chance di entrarci. Il ritratto che il Censis ha tracciato del nostro Paese (e dal quale sono presi i due dati sopra riportati) è un ritratto impietoso. Un Paese stanco, senza più birra, si sarebbe detto qualche anno fa. Un Paese seduto, anche quando sembra preso dalla frenesia. Abbarbicato a tv e a uno sbiadito edonismo. Senza più voglia di rischiare né di soffrire. Davvero siamo così come il Censis ci ha dipinti? Vorremmo che così non fosse. Ma intanto si impongono alcune osservazioni.
La prima riguarda l?evanescenza delle speranze che la politica ha finto di suscitare in questi anni. Evanescenza del sogno berlusconiano, che si è ripiegato su se stesso sotto il peso di contingenze non particolarmente fortunate, ma vittima soprattutto proprio di dilettantismo progettuale e di un?arroganza che erode consenso giorno dopo giorno. Evanescenza del sogno (se sogno c?è mai stato) della sinistra, pateticamente incapace di esprimere un progetto, un?idea, una speranza per quest?Italia.
Evanescenza del sogno federalista, che invece di liberare energie si prepara a nutrire nuove e ancora più deprimenti burocrazie.
La seconda osservazione riguarda il mondo della cultura, così incapace di esprimere anche un solo grido di dolore per quello che si sta consumando sotto i suoi occhi. Ha ben detto, con la sua ironia crudele, Guido Ceronetti che il problema primo dell?Italia non è la fuga dei cervelli ma la «fuga dal cervello». Intellettuali che hanno accettato, a suon di assegni, il declassamento a intrattenitori. Narcisi irriducibili, scrittori da avanspettacolo, polemisti isterici, cortigiani del supremo imbonitore, vedovi delle ideologie defunte: questa è, purtroppo, la scena della cultura italiana. Almeno quella visibile. Quella che parla dalle tv e dai giornali.
La terza osservazione infine è quella cui teniamo di più. Se quest?Italia ha una chance per uscire dalle secche, di invertire la triste deriva nella quale sta scivolando con incosciente beatitudine, ebbene questa chance sta là dove nessuno la va a cercare. Cioè nel suo passato. Non c?è nessun idealismo in quello che diciamo, né tanto meno nostalgia. C?è passione semmai, per quel che l?Italia ha saputo essere ed esprimere. Ma soprattutto c?è speranza che i fragili segni di novità e di non accondiscendenza alla imbelle resa generale, sappiano trovare in quel passato linfa di cui nutrirsi, terreno in cui affondare le radici. L?Italia ha inventato e praticato il primo vero welfare della storia, come insegna Stefano Zamagni (e lo insegnerà dalle colonne di Vita, a partire da gennaio, raccontando a puntate la storia della nostra ?economia civile?). L?Italia ha generato quelle grandi strutture solidali, che ancora, nonostante le prepotenze del mercato globale e il parassitarismo dello Stato, sono riuscite a sopravvivere: giganti un po? stanchi, ma presenze umane su una scena dominata da eroi di plastica. Per secoli hanno costellato questo nostro Paese di miracoli di solidarietà, hanno inventato forme d?imprenditorialità capaci di creare profitto vero, cioè profitto sociale. Questa storia, comunque fosse connotata culturalmente, è stata una storia troppo grande e geniale per pensare che sotto traccia non continui a essere un?ipotesi di sviluppo vero. Una strada, l?unica, che ci porti fuori dalle secche. Per questo la responsabilità di chi ne è figlio, cioè di chi non ha mai tolto l?àncora dalla realtà e continua a vivere, lavorare e amare, gomito a gomito nel sociale, è una responsabilità davvero immensa. Darsene una coscienza forse è l?unico modo per sperare che il Censis non abbia detto tutta la verità.
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