Welfare

Lo stato ha chiuso le porte e buttato via le chiavi

È da almeno un ventennio che non si fa più niente per il carcere. E non solo per chi sta scontando la pena ma anche per l’amministrazione penitenziaria.

di Redazione

Ho due fortune: la prima è di non essere un politico, la seconda è di avere alle spalle quasi vent?anni di attività in trincea; sono dunque in grado di dire quello che penso o – meglio – di essere fedele ad un?idea, ad un princìpio ben preciso. Tutto quello che dirò si riassume in un unico punto: dal carcere bisogna uscire e meglio di prima.

Il lavoro innanzituttoLo strumento per eccellenza che – solo – può garantire questo è il lavoro, con due caratteristiche:1) lavoro vero, cioè secondo le regole del mercato;2) lavoro di senso (o valore), cioè rivolto a compiere e a realizzare la persona.

Occorre rientrare nella legalità applicando il tanto citato art. 27 della Costituzione («?Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato?») e le normative che ne derivano.

I consorzi e le cooperative sociali in Italia hanno fatto in maniera sussidiaria solo questo: hanno provato ad operare rispettando le leggi e – guarda caso – ottenendo risultati straordinari (1-5% di recidiva contro il 90%).

Sia chiaro, è da almeno un ventennio che non si fa più niente per il carcere, laddove – quando parlo di carcere – non mi riferisco solo ai 52mila detenuti, ma anche e in modo particolare ai 60mila dipendenti dell?amministrazione penitenziaria. Per non parlare della figura del magistrato di sorveglianza, ruolo di ardua complessità e di estrema delicatezza, che la legge ha istituito con il compito di recuperare persone che hanno sbagliato e per il quale, aggiungo io, il cuore di qualsiasi persona che si dica tale desidera che riesca nello scopo nella maniera più efficace.

Il carcere oggi è una fabbrica di delinquenza e costa miliardi di euro: in prospettiva avremo 6 miliardi di euro di costi diretti nel 2008, con un incremento annuo di un miliardo di euro.

Il tutto in modo illegale.A noi che operiamo e a chi vorrebbe operare che cosa serve?

1) Applicare le normative vigenti in materia di lavoro (ord. penitenziario, legge Smuraglia, l. 381/91) e, dove serve, modificarle secondo il più recente princìpio costituzionale di sussidiarietà.
2) Investire mettendo soldi, perché, se investendo 100mila euro se ne risparmia un miliardo, quale società, quale cittadino non lo farebbe?
3) La struttura carcere deve essere più flessibile altrimenti non si fa lavoro, ma assistenza.

Per non rischiare, per non sbagliare, il segreto c?è: basta non fare niente, non prendere decisioni e ricevere solo lo stipendio: Niente di più disumano e diseducativo; ma questo equivale a buttare via la chiave. Il problema del carcere non si risolve considerando il condannato solo una mela marcia. Bisogna incominciare a curare l?albero che la produce per una soluzione vera e stabile. Non si può aspettare oltre, perché quando un albero produce tante mele marce, il contadino saggio non lo cura più ma lo taglia. E ricordiamoci che l?albero da curare è la nostra società. Per recuperare la legalità, e perciò il senso per cui si fanno le cose, occorre motivare e rimotivare chi lavora, in primis gli agenti di polizia penitenziaria. A detta degli stessi agenti, il vero problema non è costituito dalla loro quantità, ma dalla qualità del loro lavoro, che va meglio motivato, e premiato sotto il profilo economico per i più meritevoli: nessuno ha mai pensato ad esempio a prevedere incentivi per quegli agenti che abbiano contribuito ad abbattere la recidiva grazie alla qualità del loro intervento trattamentale sul detenuto? Ma per fare questo occorre:? valorizzare il vero merito;? lavorare dove serve: è interrogativo che molti si pongono quello del perché dell?affollamento del personale impiegato al Dap di Roma (2mila persone), come pure della cattiva distribuzione degli educatori (10 educatori per 300 detenuti in alcune realtà, contro 2 per 700 in altre realtà).

Questo però è un problema che investe quasi tutto il pubblico impiego.
4) Servono più magistrati di sorveglianza: cosa possono fare 150 magistrati per 52mila detenuti oggi, 62mila fra un anno e 75mila fra due?Non si può affidare il giudizio su di una persona solo a delle carte, il più delle volte risalenti ancora al periodo in cui è stato commesso il reato. Questo vale anche per gli educatori e per gli psicologi.
5) Bisogna perciò spingere di più, prima del fine pena, sul lavoro all?interno e sulle misure alternative.
6) Ultimo ma non ultimo: va posta una vera attenzione a chi vive il dramma di aver subìto un reato, se non addirittura di aver perso un caro, magari un figlio.

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