Welfare

Vittime e rei, prove di dialogo

In carcere. A Padova cento detenuti ascoltano le testimonianze di chi ha subìto un reato

di Stefano Arduini

Padova, carcere Due Palazzi, venerdì 23 maggio. Dietro le sbarre del penitenziario veneto oltre 100 detenuti per un?intera giornata ascoltano le testimonianze di cinque persone. Sono Olga D?Antona, vedova del giurista Massimo; Giuseppe Soffiantini, sopravvissuto a 237 giorni di sequestro; Silvia Giralucci, orfana di Graziano, ucciso dalle Brigate rosse nel 1974; Manlio Milani, presidente dell?Associazione familiari delle vittime di piazza della Loggia; Andrea Casalegno, figlio di Carlo, il primo giornalista italiano vittima delle Br.

Da una parte le vittime, dall?altra i carnefici. Un faccia a faccia andato in scena sotto lo striscione che dava titolo all?incontro: «Sto imparando a non odiare».Da una frase di Antonia Custrà, figlia di un poliziotto ucciso a Milano il 14 maggio 1977 nel corso di una manifestazione. «Erano 30 anni che aspettavo un momento del genere, il rispetto per le diverse posizioni è stato assoluto», le parole di Nicola Boscoletto, storico cooperatore del carcere padovano e colonna portante del consorzio Rebus, danno le dimensioni della portata dell?evento.

Il prologo è toccato ai detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, la rivista carceraria di Padova. Elton Kalica: «Il muro di cinta che ci divide dalla società dei liberi spesso ci impedisce di vedere le sofferenze che abbiamo causato». Marino Occhipinti: «Dopo tanti incontri sull?affettività, le pene alternative e la comunicazione sul carcere abbiamo capito che dovevamo fare un convegno sulle vittime, che prima si è trasformato in un convegno con le vittime e poi è diventato un convegno di ascolto delle vittime». A loro la parola.

Manlio Milani
«Dai detenuti ho sentito parole importanti, ma la mia è una condizione imbarazzante». Il presidente dell?Associazione dei familiari delle vittime di piazza della Loggia torna al 28 maggio 1974. «Mia moglie aveva 32 anni, quella mattina avevamo appuntamento con alcuni amici per partecipare a una manifestazione antifascista. Eravamo in piazza, ci eravamo appena salutati. Poi c?è stato lo scoppio». Milani rivedrà il corpo della consorte qualche ora dopo. In obitorio. «La prima reazione è stato il senso dell?assurdità. Un senso che provo, identico, ancora oggi». Gli autori di quella strage sono privi di un volto e di un nome. Il 25 novembre la prossima tappa di un processo infinito. «Adesso però cerco qualcosa di più, cerco i meccanismi che portano ad uccidere, per questo ci siamo associati». Ma una proposta concreta, di fronte a una platea così particolare, Milani la lancia: «Nel processo penale, la parte civile ha un ruolo di secondo piano. Eppure il primo confronto fra noi e i rei avviene proprio nell?aula del tribunale: quello che noi chiediamo è di avere pari dignità rispetto all?accusa».

Andrea Casalegno
«Le ?vittime? come i ?detenuti? sono concetti vaghi. Io ho perso mio padre quando avevo 33 anni, due figli e una famiglia. Non mi sento assolutamente nella stessa condizione di chi ha perso un genitore all?età di 3 o 4 anni, o di chi non ha più la compagna di una vita». Nel ?suo? processo Casalegno si è costituito parte civile: «Ma quello è un istituto previsto per la tutela del danno economico: non ho alcun desiderio di allungare o accorciare la pena degli assassini di mio padre, la punizione tocca allo Stato. I loro nomi sono noti, potrei andarli a cercare, ma a me non interessa». Il distacco di Casalegno pare assoluto. «Non ho mai provato alcun odio, l?odio è il capovolgimento del sentimento di amore. Non mi appartiene come del resto i carnefici non odiavano mio padre. Nemmeno lo conoscevano: per loro era semplicemente un simbolo da eliminare». Conclude: «Uccidere senza odio però è immensamente peggio, perché nell?odio almeno c?è un riconoscimento di umanità».

Giuseppe Soffiantini
«In 237 giorni di sequestro si ha tempo di pensare a tutto, anche alle ragioni del tuo rapitore, che magari si porta dietro un passato che lo ha spinto a fare determinate scelte». Soffiantini però non vuole passare per buonista. «Chi sbaglia deve pagare, la pena deve essere immediata e certa, poi però arriva il momento in cui si devono dare dei messaggi positivi e cercare di far capire a chi ha sbagliato che la vera libertà la conquisterà quando capirà che non si deve fare del male agli altri». «Per noi vittime alla fine il perdono è una necessità. E lo dico ora. Lo pensavo anche quando ero là». Ma perché questo processo sia davvero compiuto occorre che «il detenuto durante la pena diventi davvero una persona migliore, per questo dico che la fase rieducativa è fondamentale».

Silvia Giralucci
La voce della Giralucci è spesso rotta dalla commozione. Da qualche tempo segue un progetto di teatro-carcere («un?esperienza che mi ha cambiato moltissimo, soprattutto quando mi capita di assistere all?incontro fra i detenuti e i loro figli). Il suo però forse è l?intervento più duro e commosso. «Il mio principale desiderio è di essere lasciata in pace, di non essere riconosciuta esclusivamente come ?la figlia di?». Detto questo però «credo che gli assassini restino sempre degli assassini che dovrebbero vivere ogni giorno della loro vita tenendo ben presente quello che hanno fatto». E ancora: «La loro è stata una scelta, anche se compiuta nel passato, mentre io ho solo potuto subire le loro decisioni». Recentemente due episodi l?hanno particolarmente turbata. «La prima è stata l?ipotesi che Napolitano potesse concedere la grazia a Renato Curcio, prima che arrivasse la condanna definitiva. La seconda è stata la nomina da parte dell?ex ministro Ferrero di Susanna Ronconi nella Consulta sulle dipendenze. Se gli ex terroristi che hanno scontato la pena si danno da fare nel sociale, io ne sono felice, ma lo devono fare senza urtare la mia sensibilità». Conclude la Giralucci: «Dopo quello che hanno fatto, il mio vivere tranquilla è prevalente rispetto a qualsiasi loro esigenza. Questo va ribadito senza ambiguità».

Olga D?Antona
L?incontro di Padova nasce proprio dalla risposta positiva all?invito che la vedova D?Antona ricevette dalla redazione di Ristretti Orizzonti un anno e mezzo fa. «In quell?occasione ho percepito da parte dei detenuti il riconoscimento del mio dolore, e io stessa credo di aver riconosciuto il loro». Le ferite non si sono rimarginate, «ma certo il tempo mi ha aiutata a prendere coscienza del mio nuovo ruolo di testimone: il mio lutto andava condiviso». Per questo Olga D?Antona ha deciso di abbandonare il suo cognome natale. «Volevo dare il segno dell?irreversibilità dell?accaduto: dal 20 maggio del 99 è cambiata la mia vita, ma è cambiata anche la mia persona, il mio nome non poteva rimanere quello da ragazza». Una testimonianza che oggi ha un traguardo ben preciso: la ricerca della verità. «La giustizia non mi riguarda, appartiene alla società, ma per arrivare a perdonare o a riconoscere nell?altro il come e il perché ha compiuto certi gesti, occorre avere di fronte una persona in carne ed ossa. Altrimenti non ci resta che avere a che fare con fantasmi».


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