Welfare

Apocalisse operaia

Un viaggio ai margini della legalità. Dove le condizioni di sicurezza non esistono. Neppure nella testa di chi lavora. Intervista a Daniele Segre.

di Maurizio Regosa

Era «al colmo dell?indignazione», Daniele Segre – trent?anni di cinema della realtà alle spalle – quando ha deciso di avventurarsi nel progetto che sarebbe diventato il film Morire di lavoro, terminato in questi giorni. Un documento che è anche un viaggio: «Da marzo a novembre dello scorso anno, sono stato in Campania, Lazio, Lombardia e Piemonte, raccogliendo il materiale, parlando con i lavoratori, con i familiari delle vittime».
Vita: Gli operai erano scomparsi dal cinema. Lei li ha riportati…
Daniele Segre: Se è per questo sono scomparsi anche dai consigli nazionali dei nuovi partiti che si stanno fondando in Italia. È un tema su cui riflettere: senza i lavoratori non si va da nessuna parte. Ogni forza politica deve essere interessata. Questa questione dev?essere rimessa all?ordine del giorno ed è per questo che ho proposto che la prima del film sia effettuata al Parlamento.
Vita: E Bertinotti cosa ha risposto?
Segre: Ho avuto modo di incontrarlo a luglio e ho riscontrato molto interesse e molta attenzione. Spero possa prendere in considerazione questa possibilità. È una proposta forte.
Vita: Di nuovo le responsabilità del cinema…
Segre: Cosa si intende per cinema? Gli autori o le case di produzione? Coloro che decidono di impegnarsi, decidono da che parte stare e qual è il prezzo da pagare per essere liberi e dire quel che pensano, e trovano in partenza le strade ostruite, oppure coloro che decretano l?esistenza di un film? I film si decidono perché ci sono già le condizioni produttive. Per questo abbiamo un cinema televisivizzato.
Vita: Sembra molto emblematica la frase degli operai della Thyssen: «Siamo tornati invisibili»?
Segre: La situazione con la tragedia della Thyssen ha toccato il fondo in tutti i sensi. Han ragione a dirsi indivisibili: è la verità. La questione ora è quella di restituire dignità e diritto di parola ai lavoratori.
Vita: Il sindacato fa autocritica e dice: «Dobbiamo rientrare in fabbrica». Che ne pensa?
Segre: Io sono un regista e ho deciso di intervenire volendo dare un contributo di riflessione su un?emergenza drammatica del Paese. La mia è una proposta. Tutto quello che deve succedere perché questa dignità sia riconquistata è competenza dei sindacati, delle forze politiche, di tutti coloro che in qualche modo gestiscono il Paese. Come regista, credo e spero di aver dato uno stimolo.
Vita: Si è chiesto come siamo arrivati a questa situazione?
Segre: È la domanda che mi sono fatto io quando ho deciso di avventurarmi in questa storia. Ho conosciuto, nell?edilizia, situazioni al limite: lavoratori in nero e sottopagati, razzismo, cantieri dove se capitano incidenti le persone vengono lasciate dove sono, non si chiama l?ambulanza, e se muoiono vengono appoggiati da qualche parte, lontano? Non hanno diritto di parola, devono fare solo quello che dicono loro di fare, non hanno strumenti di sicurezza. Alla fine ho capito che i lavoratori non hanno più la dignità di esistere. Hanno perso ogni potere contrattuale.


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