Cultura

San Gallicano, un vero ospedale di frontiera

"Trent’anni fa curare un immigrato era un’azione al confine del lecito, oggi in corsia abbiamo i mediatori culturali". Così funziona a Roma una struttura modello.

di Maurizio Regosa

E' nato il 9 gennaio, sotto gli sguardi del ministro Turco e del presidente Napolitano, l?Ipnm, acronimo per Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e il contrasto delle malattie della povertà, con sede presso l?ospedale San Gallicano di Roma e collegamenti in Puglia e Sicilia. Una realtà nuova, le cui radici affondano in quasi 30 anni di battaglie. Quando curare un emigrato sembrava un?azione da nascondere. O perseguire, se proprio si doveva, nottetempo. Fuori dall?orario ?normale? e comunque non in ospedale. «Non ha idea di quali contrasti inenarrabili abbiamo dovuto affrontare come ospedale che da anni si occupa di povertà», ricorda Aldo Morrone, pioniere di quella scelta e oggi direttore dell?Inpm. «Abbiamo avuto rapporti disciplinari, vere e proprie denunce. Questa è una vittoria dei più fragili, che con il loro grido di richiesta di salute e di dignità hanno costretto le istituzioni a cambiare». L?Ipnm non è un ghetto dove si curano gli emarginati, ma «una struttura sanitaria aperta a tutti, con particolare riguardo agli stranieri, ai pensionati, ai rifugiati, alle prostitute, ai rom e ai senza fissa dimora. Facciamo assistenza, ricerca e formazione», precisa Morrone. Che aggiunge: «Visto che i pazienti sono disuguali offriamo loro, con l?ausilio di mediatori culturali, servizi diseguali». La geografia del disagio non è mai definitiva. Difficile farne una mappa una volta per tutte. «Nella popolazione italiana c?è stato un progressivo impoverimento. Mentre gli immigrati si stabilizzavano, molti pensionati sono precipitati in una condizione esistenziale difficilissima. Se pochi anni fa un?iniezione intramuscolare costava 500 lire, oggi si spendono 5 euro. Dieci iniezioni fanno 50 euro, il 10% di una pensione minima». «Del resto», spiega sempre Morrone, «oggi l?Organizzazione mondiale della sanità riconosce che la povertà estrema è una malattia». Se si è poveri, si ha timore persino di un controllo medico e delle possibili spese impreviste. Occorrerebbe tornare alle diagnosi. Come è successo nell?esperienza di Morrone e dei suoi collaboratori: «Lavorando con poche risorse e con persone che non sempre potevano spiegare i loro sintomi, non abbiamo mai abbandonato la diagnosi, l?esame obiettivo. Il che è giusto anche da un punto di vista scientifico: fare analisi generalizzate è un errore, anche in termini economici. Ma pure in questi anni abbiamo capito che la salute non è solo un fatto medico. Dal 1999 al 2006 abbiamo raccolto una casistica importante seguendo oltre 6mila persone senza fissa dimora. Oltre a tentare di fare diagnosi precoci e ridurre il danno, abbiamo verificato che alcune patologie sono legate alla loro condizione per il 70-80%. Se vogliamo far guarire questi pazienti, dobbiamo dar loro una dimora».«La salute per l?80% è determinata da condizioni non mediche», puntualizza Morrone, «abbiamo trasformato gli anziani in persone sole e in consumatori di farmaci. Sarebbe per molti stato sufficiente ridurre i farmaci, migliorare l?alimentazione, ridurre la solitudine, rendere più salutari le condizioni abitative». «Per queste ragioni mi sembra che a Milano, escludendo dagli asili i figli degli immigrati non regolari, stiano facendo un grave errore anche sul piano scientifico: se voglio un?integrazione che porti un?economia di risorse, io devo portare tutti i bambini a scuola, dove posso controllare le malattie del minore, seguire la famiglia». Non è un caso se l?Inpm si avvale di mediatori culturali. Con la relazione si possono ottenere risultati migliori. Prendiamo le statistiche relative alla 194: in questi anni è cresciuto il numero delle migranti che ricorrono all?aborto. «Se non si riesce far accedere al Ssn le giovani straniere in buona salute, è chiaro che il rischio della perdita del lavoro, se si è incinta, diventa una forma di contraccezione drammatica. Come invertire la rotta? Facendo sì che queste donne accedano sempre di più ai consultori».


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