Mondo

Prizren, benvenuti nell’isola felice

Uno straordinario caso scuola in Kossovo

di Daniele Biella

Lo dicono tutti: il Kosovo della convivenza è morto e sepolto. Niente di più sbagliato. Basta andare a Prizren e lo ritrovi. Cos?è Prizren? È una città kosovara a 18 chilometri dal confine con l?Albania. Ha 171mila abitanti, il 97% dei quali è di etnia albanese. Ma per le strade senti parlare anche il serbo e il turco. E da qualche tempo hanno riaperto al culto le chiese ortodosse, il rito dei serbi. Qual è il suo segreto? «Qui passato e presente sono una cosa sola», risponde Orhan Miftari, 32 anni, responsabile di Caritas Kosovo, «Prizren è il simbolo del Kosovo che non cede ai nazionalismi, da sempre un grande laboratorio di coabitazione fra etnie diverse. Basta una passeggiata in centro per rendersi conto che è ancora così».

E il borgo storico della città, in effetti, è una tela a cui pochi pittori potrebbero resistere: in poche decine di metri posano il ponte ottomano, l?hammam, la cattedrale cattolica e quella ortodossa. Poco più in alto, la moschea più antica (1463) della ex Jugoslavia, dove un gruppo di ragazzine sta studiando il Corano.

All?entrata, un messaggio dei fondatori recita: «Benvenuto in questa città, culla dell?incontro fra civiltà». A cavallo fra mondo cristiano e mondo arabo, in dieci secoli di storia Prizren è stata il fiore all?occhiello artistico e culturale di ogni impero che si è avvicendato: bizantini, serbi, ottomani. «Proprio per questo la città non ha mai perso la sua caratteristica principale: il rispetto delle minoranze», continua Miftari, «oggi, fatta eccezione per la città-enclave di Mitrovica, nella municipalità di Prizren vive la gran parte delle famiglie serbe rimaste in Kosovo. Poi ci sono rom, bosniaci, turchi». I numeri non sono alti, «qualche migliaio in tutto», ma «la maggior parte dei nostri progetti a favore dell?integrazione ha avuto successo, qui a Prizren».

Caritas Kosovo, nata nel 1992 come sezione di Caritas Germania ma diventata autonoma nel 1999, all?indomani dello scoppio della guerra, ha scelto Prizren come sede principale, «proprio perché all?avanguardia da sempre», chiarisce Miftari. «Per decidere il futuro del Kosovo bisogna passare da qui». Un futuro che, per funzionare, deve superare i rancori del recente passato.

«L?esempio può arrivare da noi giovani, che siamo cresciuti parlando tutte e tre le lingue: albanese, serbo e turco», spiega Blerim Bobaj, 30 anni, cooperante kosovaro albanese che nel periodo post conflitto ha lavorato con enti statunitensi, francesi e l?italiana Ipsia, ong delle Acli. «Anche oggi ci capita di passare da una lingua all?altra, senza accorgercene. Per noi non fa alcuna differenza». Ma l?odio razziale? «Di certo è arrivato anche a Prizren, la maggior parte dei serbi sono stati fatti fuggire», continua Bobaj, «ma se fosse stato per la gran parte di chi vive qui, la convivenza sarebbe continuata». Il focolaio di scontri più recente, nel marzo 2004, ha toccato anche la città: alcune case serbe sono state bruciate e solo l?intervento delle forze Onu ha calmato i nazionalisti albanesi.

A distanza di tre anni, la situazione si è evoluta. «Con un ritorno al passato: oggi le chiese ortodosse non sono più recintate e i militari stranieri sono sempre meno», riprende Bobaj. Sulla collina dietro al centro della città, però, attorno al monastero serbo di St. George sono ben visibili le trincee del contingente tedesco. «Ma non c?è più filo spinato, e la chiesa è aperta al pubblico», spiega il cooperante, «loro rimangono lì perché è un buon punto di osservazione». Può capitare, a spasso per i negozi del centro, di dimenticare di essere in una regione che per molti è una mina pronta ad esplodere. «Prizren non è un?isola felice, i problemi delle altre città kosovare ci sono: disoccupazione sopra il 50%, mancanza di elettricità per varie ore al giorno, corruzione ancora troppo diffusa», avverte Bobaj, «ma se il punto di partenza è la convivenza, allora la città è un modello per tutto il Kosovo».

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