Formazione

Eutanasia. Quanta confusione attorno a questa parola

Le parole&Lecose. Intervista al medico Guido Bertolini

di Sara De Carli

Vita: Com?è possibile che una ricerca presentata un anno fa, su dati del 2005, sia tornata con così tanto clamore sulle pagine di tutti i giornali, senza che nessuno dicesse che la ricerca era sempre la stessa?
Guido Bertolini: Questo me lo dovrebbe spiegare lei. Il punto però è che i giornali hanno fatto titoli falsi, tipo «Ogni anno aiutiamo a morire ventimila malati» o «Così in corsia aiutiamo a morire». L?errore più grave è quello del nesso causale: la gente non muore perché le terapie sono state sospese, né è vero che i rianimatori aiutano i pazienti a morire. Far passare messaggi di questo tipo è pericoloso, perché si producono effetti negativi sui pazienti e i loro famigliari e perché si altera il dibattito. E dire che la ragione principale per cui così tanti medici avevano accettato di partecipare a questa ricerca era il mettere finalmente a disposizione dell?opinione pubblica dati rigorosi, pensando che così il dibattito sarebbe stato vincolato a dati di fatto. Non è successo.

Vita: Però l?anno scorso il dato era diverso: il 60% moriva con in atto un piano completo di cure. Tant?è che il dato – si diceva – confermava che in terapia intensiva si fa accanimento terapeutico e dunque rendeva evidente la necessità di una legge sul testamento biologico. Com?è possibile che ora si dica che per il 62% dei pazienti in terapia intensiva vengono interrotte le cure? La versione è diametralmente opposta.
Bertolini: Andiamo per gradi. Innanzitutto il mettere in atto tutti i trattamenti disponibili, nel contesto della terapia intensiva, significa che si sta investendo molto su un paziente perché si crede nelle sue capacità di ripresa: tant?è che al momento dell?accettazione si fa un piano di cure che solo per l?8% dei pazienti prevede di non utilizzare tutti i trattamenti disponibili. L?ambiguità che lei cita è dovuta al modo in cui si interpreta uno dei dati. Il 20% dei pazienti che muoiono sono deceduti avendo sì in atto un trattamento terapeutico pieno, ma senza la rianimazione cardiopolmonare. Il paziente cioè, pur con tutte le cure in atto, va in arresto cardiorespiratorio e io scelgo di non rianimarlo. Ecco: bisogna decidere se questa situazione descrive un supporto terapeutico pieno o una limitazione terapeutica, e così quel 20%, dovunque lo si attacchi, porta vicini al 60%.

Vita: Dove lo attacchiamo?
Bertolini: Io direi che non fare la rianimazione cardiopolmonare è a tutti gli effetti un rinunciare all?assistenza. Quindi siamo al 62% di persone decedute con in atto una qualche forma di desistenza terapeutica: in proiezione si tratta di un po? più di 18mila pazienti ogni anno.

Vita: Perché allora è falso affermare che i medici aiutano i pazienti a morire?
Bertolini: Nel 70% dei casi i pazienti in terapia intensiva hanno una insufficienza acuta di un organo vitale: questi pazienti, se stessero in un reparto normale, morirebbero in poche ore. Il processo di morte è già avviato. La strategia dell?intensivista è quella di prendere tempo, rubare tempo alla morte e utilizzare il tempo guadagnato per consentire alle terapie di fare effetto. Sul 20% dei pazienti che entrano in rianimazione le terapie non producono alcun effetto: quando questo accade, significa che il processo di morte è inarrestabile, il paziente sta morendo e mantenere una terapia intensiva completa ha l?unico effetto di prolungare l?agonia. Si dilata il processo del morire, facendolo durare qualche giorno anziché qualche ora. Di fronte a questi casi l?intensivista decide di desistere, rinuncia ai trattamenti, per il bene del paziente: è un atto dovuto nei confronti del paziente. Addirittura – e questo è un aspetto di cui nessuno parla – dove si fa meno desistenza, la mortalità è più alta. È un dato importante perché sfata il mito che la desistenza equivale a togliere chances al paziente, a farlo morire. Fare desistenza è al contrario un criterio di qualità complessiva, che dice che quell?équipe è molto attenta al bene del paziente.

Vita: In questo senso lei tiene a precisare che la desistenza terapeutica non ha nulla a che fare con l?eutanasia…
Bertolini: L?eutanasia è la soppressione intenzionale di un paziente che ne fa richiesta: qui ne siamo lontani anni luce. Dalla ricerca tra l?altro emerge che i medici non danno mai ascolto alla volontà di sospensione delle cure da parte del paziente che è in rianimazione per un incidente, una ragione imprevista, e dà in diretta l?indicazione di ?farla finita?. In rianimazione c?è solo l?8% dei pazienti che dà disposizioni sui trattamenti e si tratta sempre di pazienti arrivati allo stadio terminale di una malattia degenerativa. La realtà della terapia intensiva è completamente diversa dalle situazioni che abbiamo visto sui media in questi mesi e che hanno tanto influenzato sia l?opinione pubblica sia i disegni di legge depositati in Senato. Una buona legge non può tener conto solo di una parte della questione.

Vita: Secondo lei la legge serve?
Bertolini: Questa è un?opinione personale. Io sono convinto che la legge sia utile e mi auguro che venga approvata. A patto che non passi una cattiva legge. E onestamente ho il dubbio che possa essere così.

Vita: Perché?
Bertolini: Innanzitutto perché nessun ddl parla di desistenza terapeutica come di un atto dovuto al paziente. Non parlarne vuol dire sancire la possibilità di desistere e di sospendere solo a fronte di una dichiarazione anticipata. Questo è negativo, perché nessuno è in grado di prevedere le miriadi di condizioni in cui potrebbe un giorno trovarsi e tutti i trattamenti che potrebbe essere bene sospendere. La desistenza diventerebbe automaticamente fuori legge nella maggioranza dei casi: un pessimo servizio ai pazienti e ai cittadini.

Vita: Nella desistenza sono compresi anche alimentazione e idratazione?
Bertolini: Per me sì. L?idratazione in particolare è una delle attività cliniche più complesse, tant?è che uno degli aspetti cruciali della rianimazione è assicurare una corretta idratazione. Non solo è un trattamento medico, ma è un trattamento che neanche tutti i medici sono in grado di fare bene. Non si tratta solo di iniettare acqua e sale.

Vita: L?ultimo ddl depositato introduce nel Codice penale il delitto di accanimento terapeutico. Serve?
Bertolini: Assolutamente no.

Vita: Quali sono a suo parere gli altri difetti dei ddl depositati?
Bertolini: La questione del fiduciario. Se il paziente nomina il suo, non c?è problema: però teniamo presente che funzionerebbe solo per pazienti affetti da malattie lunghe, come dicevo prima. Ma se il paziente non lo nomina? Alcuni ddl parlano di un giudice, altri di un famigliare. Il famigliare va bene se pensiamo ancora ai casi stabilizzati, ai Welby e alle Englaro, ma non vanno affatto bene per la terapia intensiva, perché una persona che ha il proprio caro in queste condizioni perde lucidità. Senza contare – ma bisognerebbe farlo – che molte famiglie presentano relazioni articolate, che un medico non può capire a prima vista: come fa a sapere che il famigliare più vicino al paziente è quello che dà maggiori garanzie di scegliere il bene del paziente? Questi articoli sono stati concepiti in difesa dell?istituto famigliare, ma l?effetto sarà opposto, quello di mettere sotto pressione persone che hanno bisogno di tutt?altro e quello di creare fratture. Dalla ricerca emerge che all?atto pratico il coinvolgimento pieno dei famigliari nelle decisioni di desistenza è basso, attorno al 44%. Nel 39% dei casi addirittura il famigliare non è stato per nulla coinvolto. La decisione sulla sospensione dei trattamenti è essenzialmente clinica, tecnica, medica.

Vita: Vuol dire che lei vede bene il riaffermare il ruolo prioritario del medico?
Bertolini: Personalmente sì, non ho dubbi. È vero che c?è il diritto costituzionale del paziente di essere sempre coinvolto: però questo principio è ispirato a fare il bene del paziente. Se il paziente non è in grado di intendere e di volere, bisogna capire chi è l?attore, fra tutti, più in grado di garantire il bene del paziente. Esclusi i famigliari, alcuni dicono che è il giudice: ma è una soluzione ben buffa. Questa ipotesi è ispirata al fatto che il giudice è chiamato, per deontologia professionale, ad agire per il bene del cittadino. Ma allora non si capisce perché non si possa fare affidamento su un analogo vincolo deontologico, quello del medico. Vuol dire che ci sono professionisti di serie A e B? Tra l?altro è una soluzione impraticabile nella realtà. Queste sono decisioni che vengono prese in poche ore, nel migliore dei casi nel giro di tre giorni. Il giudice, che di medicina non sa niente, dovrà garantire l?operatività in tempi brevissimi e poi nominare un perito, che altri non è che un secondo medico. È ridicolo. Si vuole dire che un medico che ha in cura un paziente non può decidere perché ha dei conflitti di interesse?

Vita: Non c?è il rischio che il medico torni ad essere un padre-padrone?
Bertolini: Queste decisioni dovrebbero essere prese per legge non da un unico medico, ma da una équipe di professionisti, medici e infermieri. È chiaro che questo non sempre è possibile, a volte non c?è tempo: allora la legge dica che è a carico del medico dimostrare che era impossibile prendere la decisione in équipe.

Vita: La sentenza della Cassazione sul caso Englaro indica l?irreversibilità dello stato vegetativo come paletto per interrompere respirazione, alimentazione e nutrizione artificiali. Il presidente dell?Aaroi, l?associazione anestesisti rianimatori ospedalieri italiani, ha detto che è scientificamente impossibile stabilire l?irreversibilità del coma, mentre Umberto Veronesi ha detto che lo si può fare tranquillamente. Chi ha ragione?
Bertolini: Né l?uno né l?altro. Certo nessun medico sottoscriverebbe un?affermazione sull?irreversibilità di un coma dicendole che si tratta di una certezza assoluta: non è cosa alla portata dell?uomo. Detto questo, però, in letteratura non c?è nessuna documentazione, in nessun Paese al mondo, di stati vegetativi che si sono modificati dopo un certo numero di anni. Dal punto di vista della letteratura, non della certezza assoluta, si può dire che, da questo punto in poi, da un punto di vista scientifico non ci sono più possibilità di ripresa e di reversibilità del coma.

Vita: Che risparmio porta alle casse dello Stato la desistenza terapeutica?
Bertolini: È un brutto modo di prendere la questione. Abbiamo chiesto qual è stata la ragione di sospensione e abbiamo previsto anche il non spreco di risorse: è una voce che è stata compilata nel 13% dei casi, ma mai da sola. Quella economica non è mai la ragione determinante. Il costo di una giornata in terapia intensiva è intorno ai 1.200/1.500 euro, ma gli intensivisti sono abituati a disporre di tutto il necessario, non si pongono il problema economico. Ci pensano al momento di decidere se accettare o meno il paziente. E penso sia giusto, perché i posti in rianimazione sono pochi e vanno dedicati a chi se ne può giovare. Ma una volta dentro, non si interrompono i trattamenti per motivi economici.


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA