Cultura
Un filo di pace
Due libri da non lasciarsi scappare. Sono dedicati al conflitto tra israeliani e palestinesi. E danno voce a chi crede che non ci sia nulla di irrimediabile.
Un libro può servire alla pace? Dopo aver letto questi due volumi appena usciti per due case editrici minori e coraggiose, è davvero difficile rispondere di no. Le parole servono, perché aprono uno spazio laddove la cronaca sembra chiudere ogni spiraglio. I ragionamenti aiutano, perché dimostrano che non tutto quello che accade è ineluttabile. Certo ci vuole del coraggio. O, come dice Sergio Romano, presentando il volume edito da Casagrande, ci vogliono «vitalità e spregiudicatezza». Perché si devono rompere incrostazioni o preconcetti che sembrano senza soluzioni (di tipo anche molto elementare come: israeliani e palestinesi non potranno mai andare d?accordo). E poi perché si deve rompere una logica mediatica che usa lo spettacolo del sangue per tenere in scacco la ragione.
Veniamo dunque a questi libri, dedicati allo stesso conflitto e molto simili nella struttura. Sono libri a più voci, perché la coralità in questo caso è un elemento essenziale. Nessuna voce è uguale all?altra, e questo sta a testimoniare come il fronte di chi non si rassegna costituisca un fronte variegato e plurale. Non è una parte, ma sono tante parti che convergono su un?unica evidenza: lo scontro non è scritto nel dna dei due popoli.
Le ragioni del nemico, curato da Bettina Müller (Casagrande, 9,20 euro), raccoglie, come recita il sottotitolo, Voci ebraiche a favore della causa palestinese. Le raccoglie ad ampio raggio selezionandole con intelligenza, dentro e fuori Israele.
La bandiera nera (Una città, 12 euro), invece raccoglie tutte voci da dentro Israele. Il titolo stesso è tratto da una storica sentenza della Corte suprema di Tel Aviv, che nel 1956 dichiarò colpevoli i soldati responsabili del massacro di Qafr Qasem, rifiutando la scusante secondo la quale avevano soltanto eseguito degli ordini. Disse allora la corte che un soldato ha il diritto e il dovere di rifiutare un ordine sul quale «sventola la bandiere nera dell?illegalità». Il libro è una raccolta degli interventi che una piccola ma intelligente rivista italiana, Una città, ha pubblicato in questi anni. La bellissima prefazione è di Adriano Sofri. Scrive Sofri che si avverte tra queste pagine come chi scrive o chi parla, scriva o parli con molta competenza su cose che a loro «importano molto». Il vecchio «I care» di don Milani sarà in grado di rimettere in moto la storia, là dove sembra ostaggio dell?odio e delle reciproche incomprensioni? Dice Sofri che dopo aver letto «si saranno capite molte più cose. Non è detto che se ne esca più ottimisti». Ci sentiamo di smentirlo. Le voci degli uomini ragionevoli, portano comunque all?ottimismo.
C?è molto da dimenticare. I palestinesi ricordano le espulsioni di massa del 1948, le espropriazioni di terre, lo sfruttamento economico, la colonizzazione della Cisgiordania, gli assassinii politici e centinaia di piccole umiliazioni quotidiane. Gli israeliani ricordano la guerra del 1948, il rifiuto arabo di riconoscere il loro Stato prima del 1967, e da allora le minacce ripetute di ricacciare gli ebrei nel mare, e i terribili massacri di civili.
Ma le memorie del Medio Oriente non sono né uniche né eccezionali nella loro portata. L?Ira per due decenni ha ucciso regolarmente protestanti sulla loro porta di casa, davanti ai loro figli. I killer protestanti hanno ripagato con la stessa moneta. Le violenze continuano sebbene parecchio ridotte. Questo non ha impedito ai protestanti moderati di iniziare colloqui ufficiali con le loro controparti del Sinn Fein; Gerry Adams e Martin McGinnis sono oggi accettati come leader politici legittimi.
Nelle convulsioni finali della Seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di polacchi e ucraini furono uccisi o espulsi dai loro rispettivi territori dai vicini ucraini o polacchi, in una follia di violenza intercomunitaria mai vista in Medio Oriente; al tasso attuale gli ebrei e gli arabi ci metterebbero molti decenni per raggiungere un bilancio di morti paragonabile. Tuttavia, oggi i polacchi e gli ucraini, nonostante le loro tragiche memorie, non solo vivono in pace ma collaborano e cooperano sempre più strettamente lungo una frontiera tranquilla.
Ce la si può fare. Oggi nel Medio Oriente ogni fazione vive all?interno di memorie sigillate ermeticamente e di racconti nazionali in cui il dolore dell?altra parte è completamente cancellato. Ma lo stesso valeva per gli algerini e i francesi, i francesi e i tedeschi, gli ucraini e i polacchi e, specialmente, per i cattolici e i protestanti dell?Ulster. Non c?è un momento magico in cui i muri crollano, ma la sequenza degli eventi è chiara: prima viene la soluzione politica, imposta tipicamente da fuori e dall?alto. Spesso quando l?odio reciproco è al massimo. Solo dopo si può cominciare a dimenticare.
Il momento attuale, con Ariel Sharon pronto a innescare un lungo ciclo di morte e distruzione nella regione, potrebbe essere l?ultimo possibile, come ha riconosciuto recentemente il presidente americano. Lo è sicuramente per Israele. Molto prima che gli arabi otterranno la loro terra e il loro Stato, Israele sarà corroso dall?interno. La paura di mostrare solidarietà con Sharon, che già inibisce molte visite ufficiali in Israele, si estenderà rapidamente a tutta la comunità internazionale, lasciando Israele in condizioni di Stato paria. Per quanto Sharon sia deleterio per i palestinesi, essi gli sopravviveranno.
Osservatori ben intenzionati dell?odierna situazione in Medio Oriente ripongono a volte fiducia nell?idea di un tornaconto materiale delle parti in guerra. Sostengono che i palestinesi starebbero molto meglio se accettassero l?egemonia israeliana in cambio della prosperità materiale e della sicurezza individuale, in ogni caso prima o poi finirebbero con l?abbandonare le loro rivendicazioni di piena indipendenza. Se c?è un calcolo strategico dietro ai carri armati di Sharon, sarebbe questo: se sufficientemente intimoriti, gli arabi capiranno quanto costa loro combattere e si accorderanno per una vita pacifica alle condizioni di Israele.
Questa è forse la più pericolosa di tutte le illusioni coloniali. Non ci sono dubbi che la maggior parte degli algerini arabi sarebbe stata meglio sotto i francesi che sotto il regime autoctono repressivo che li ha rimpiazzati. Lo stesso vale per i cittadini di molti stati postcoloniali prima sotto il dominio di Londra. Ma i parametri di una vita gratificante non sono facilmente calcolabili con le misure di reddito, longevità o persino sicurezza. Come ha osservato Aron «è una negazione dell?esperienza del nostro secolo supporre che gli uomini sacrifichino le loro passioni per i loro interessi». È per questo che gli israeliani, con il trattamento che riservano agli arabi da loro assoggettati, si trovano su un binario morto. Non ci sono alternative ai negoziati di pace e a un accordo finale. E se non lo si fa adesso, quando?
di Tony Judt
*docente alla New York University
Da un po? di tempo, leggo le cronache del Vicino Oriente quasi solo per cercarvi gli incidenti, gli atti mancati, i dettagli singolari, specialmente dal lato palestinese (…) Ritaglio questi episodi eccentrici ed accidentali, contrattempi, coincidenze, imprevisti; mi consolo con la loro frequenza.
Come la rincorsa dell?assassino suicida Rafiq Hamad, che cercò di salire sull?autobus mentre la portiera si chiudeva, scivolò, e cadde a terra. Successe il 10 ottobre 2002, giovedì.
Un uomo di 35 anni, Rafiq Hamad, palestinese padre di quattro figli, scese dalla città di Kalkilya alla superstrada israeliana n. 4, che va a Tel Aviv. Alla fermata di Geha Road cercò di salire sull?autobus 87, ma sbatté nella portiera che si chiudeva, e cadde a terra svenuto, con la testa sanguinante.
L?autista dell?autobus, Baruch Neuman, 50 anni, lo vide nello specchietto retrovisore e n?ebbe compassione. Fermò l?autobus, scese, e con un altro passeggero, un infermiere, gli si fece vicino, e lo soccorse. Gli aprì la camicia per farlo respirare meglio, e vide il corpetto, fili elettrici e cinque chili di esplosivo imbottito di chiodi e biglie. Lo tenne fermo e gridò alla gente di scappare. Poi, mentre l?altro, rinvenuto, si divincolava furiosamente, scappò anche lui. Rafiq Hamad si alzò, fece qualche passo, e si fece esplodere gridando qualcosa in arabo. Saada Aharon, una donna ebrea di 70 anni morì, altri sedici restarono feriti.
L?attentato fu rivendicato a Gaza da Ezzedin al- Qassam, le brigate di Qassam, braccio armato di Hamas.
Raccontato così, l?episodio ne ricalca un altro.
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Un samaritano lo vide e n?ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.
Un sacerdote vide e passò dall?altra parte. Anche un levita vide e passò oltre. Il terzo era un samaritano, straniero ed eretico, in odio ai giudei. «Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Rispose: «Chi ha avuto compassione di lui».
Un dottore della legge si era alzato per metterlo alla prova? Aveva chiesto a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». Gesù disse: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico?».
Se il disgraziato Rafiq Hamad si fosse regalato la ritirata concessa da quell?inciampo nella portiera dell?autobus, se avesse graziato le sue vittime e se stesso- secondo quella benignità un po? superstiziosa per cui si faceva grazia della vita all?impiccato cui si fosse spezzata la corda al collo- avrebbe avuto il tempo di chiedersi chi fosse il suo prossimo. I committenti di Ezzedin al- Qassam, o l?autista Baruch Neuman, o chissà chi altri. Forse la signora Saada Aharon.
L?inesauribilità di quella parabola del buon samaritano, fede positiva a parte, sta nella domanda sul prossimo. Il prossimo è quello che mi sta vicino, cui sto vicino: la ragazza davanti a me nella fila per entrare nella discoteca, sulla cui soglia mi farò esplodere. Il prossimo è quello che, benché di una gente ostile e malvista, si è fermato a soccorrermi. Per riconoscere il mio prossimo, devo forse accettare di disconoscere i capi della mia tribù e della mia Brigata.
Lo stesso giorno dell?attentato all?autobus n. 87, i nostri giornali riportavano il contenuto di una lettera aperta inviata al quotidiano Al Hayat dal signor Abu Saber.
Palestinese, padre di un kamikaze che si era fatto esplodere in Israele, Abu Saber aveva perduto poi la casa, distrutta dalla ritorsione israeliana, e temeva ora per il suo secondogenito diciassettenne: «Hanno iniziato a circuirlo, avvinghiati a lui come serpenti. Vogliono spingerlo a vendicare il fratello». Abu Saber pronunciava una denuncia terribile contro i capi di Hamas e della Jihad. «Perché non ho ancora visto un figlio o una figlia loro indossare una cintura esplosiva e compiere quello che i loro padri chiamano martirio e io chiamo morte?? Quello che ferisce di più il mio animo è vedere sheikh e leader che nascondono i figli. Quando l?Intifada è esplosa, Mahmoud Al Zahar ha mandato suo figlio Khaled in America, Mohammed Abu Shanab ha mandato suo figlio Hassan in Gran Bretagna, la moglie di Abdel Aziz Rantissi ha impedito al suo di farsi saltare e l?ha mandato in Iraq a finire gli studi». Abu Saber esprimeva la sua ripugnanza per le migliaia di dollari offerte alle famiglie dei ?martiri?: «Quel denaro aumenta la sofferenza, è come se si fosse ricompensati per aver offerto la vita dei nostri ragazzi».
Immagino che sia sentito solo, Abu Saber. Spero per lui che abbia avuto accanto il suo prossimo. Chi non lo fosse, l?aveva capito bene.
di Adriano Sofri
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