Formazione

Quello sguardo di pietà nel cuore di New York

Fotografia. Un reportage tra i tossici di Manhattan

di Joshua Massarenti

«Ho cominciato questo progetto quando ho incontrato Jim Diamond in una strada di Lower Manhattan». L?incontro fra Jessica Dimmock e il signor Diamond risale all?autunno 2004. Di professione, Jim fa lo spacciatore di cocaina, assicurando ai propri clienti adrenalina allo stato puro. Ma mai quanto ne avrebbe offerta a Jessica. Sono bastate tre notti trascorse insieme nel cuore frenetico della Grande Mela per convincere Jim di portarsi appresso questa giovane fotografa nell?epicentro della (dis)umanità. L?inferno si è spalancato al nono piano di un ricco ed elegante palazzo all?angolo tra la Quinta Strada e la Ventiduesima, a ridosso del Flatiron Building, un pezzo di storia dell?architettura newyorkese di inizio Novecento.

«Le porte dell?ascensore si sono aperte direttamente su un grande appartamento», ricorda Jessica, «ci siamo ritrovati in una camera da letto accanto al corridoio. Dentro era scura, marrone giallastro. C?erano quattro o cinque persone sedute su mucchi di vestiti e mobili rotti e il pavimento era coperto di rifiuti». La storia di Il Nono Piano (edito da Contrasto), fotoreportage tra i più sconvolgenti dell?ultimo decennio, inizia qui. In un appartamento milionario finito tra le mani di tossicomani alle prese con i loro demoni, le loro ?fami chimiche?.

Per ventiquattro mesi di fila, armata di una Leica, Jessica fotograferà lo sbandamento di una casa e l?autodistruzione di 30 esseri umani. Un processo lento, inesorabile, reso ancor più traumatico dopo i legami instaurati dalla fotografa con Mike, Jesse, Joey, Rachel, Dionn, Natasha e infine il proprietario dell?appartamento, Joe Smith, 68 anni, una vecchia gloria dell?arte newyorkese degli anni 70 ridotta talmente male da doversi fare bucare dai ?coinquilini?. Su come Jessica, appena 24enne, sia riuscita a fotografarli rimane un mistero per tutti. Di sicuro, la sua capacità di approccio a queste persone è risultata fuori dal comune. Così come il modo di ?immortalarle? mentre si bucano, fanno sesso, dormono, litigano e ridono. Un lavoro sociale eccezionale che abbiamo tentato di ricostruire assieme alla sua protagonista, Jessica Dimmock.

Vita: Jessica, quali le motivazioni che ti hanno spinto in questo progetto fotografico?
Jessica Dimmock: Quella principale è la profonda curiosità, se non la passione, che nutro nei confronti dell?essere umano, delle sue aspirazioni, delle sue tragedie. Questo lavoro riflette non soltanto il mio approccio allo strumento fotografico, ma anche le relazioni che ho instaurato con le persone fotografate. Si è trattato di un progetto faticoso, a volte penoso, che però è riuscito a regalarmi rapporti umani incredibili.

Vita: Sarebbe a dire?
Dimmock: Nell?appartamento si respirava un?aria claustrofobica, malata, spesso ostile e sfuggente, addirittura insopportabile per le scene a cui sei sottoposto. Mi è capitato di passarci tre notti di fila, notti lunghissime, che non finivano mai. A volte provavo disgusto: c?è chi si bucava, chi litigava fino a sfasciare mobili e pareti, chi defecava nei letti o sui divani, chi faceva l?amore con corpi devastati dall?eroina. La dipendenza alla droga era tale che anche privi di elettricità, le persone continuavano a bucarsi al lume delle candele. Segno di degrado, potevano passare giorni senza che nessuno si prendesse la briga di fare un salto nel seminterrato per riattivare l?interruttore. Con la morte di Joe nel 2005, dal degrado si è passato al disfacimento totale. Le poche regole vigenti, come quella per cui ognuno aveva delimitato il suo territorio, sono letteralmente saltate. Eppure, da questo caos umano non riuscivo a staccarmi. Volevo capire fino in fondo la loro realtà, le loro vite, entrare nei dettagli del loro vissuto quotidiano.

Vita: Ma in che modo sei riuscita a farti accettare?
Dimmock: L?introduzione di Jim, lo spacciatore di cocaina, è stata ovviamente il primo passo fondamentale. Per il resto, credo che abbia giocato molto il fatto che ero l?unica persona sana a frequentare l?appartamento e che non avendo rubato nulla e soprattutto non essendo una spia della polizia, non potevo rappresentare una minaccia. Facevo piccoli regali, stando ben?attenta che ciò non compromettesse la mia presenza. Temevo che sarebbe potuta circolare tra gli inquilini l?idea che volessi comprare la loro disponibilità a farsi fotografe nella loro intimità in cambio di qualche pacchetto di pop-corn e qualche birra. Detto questo, credo di essere stata incredibilmente fortunata ad aver incontrato persone così generose nei miei confronti e così disposte ad esporsi alla mia Leica. A volte mi sono chiesta se non fosse un modo per lasciare un segno della loro storia personale.

Vita: Inevitabilmente si sono create delle amicizie?
Dimmock: Non con tutti, ovviamente. Il rapporto che ho instaurato con Jesse è la massima espressione di ciò che condiziona la relazione tra un tossicodipendente e una persona che intende testimoniare sulla sua vita. Credo di aver scritto nel libro Il Nono Piano che la neutralità è la base dell?amicizia, ma che d?altra parte l?amicizia finisce inevitabilmente per minare la neutralità, quindi il lavoro documentaristico. Nel caso di Jesse, quando un?amica si sta uccidendo e si fida di te perché crede che sei disposta a seguirla fino alla fine, allora la situazione diventa insostenibile. L?ho capito quando nemmeno la morte per overdose di un suo ragazzo, deceduto accanto a lei in piena notte, è bastata a convincerla di smetterla con l?eroina.

Vita: Che fine hanno fatto i suoi personaggi?
Dimmock: Joe è morto nel 2005 in seguito a una infezione del sangue. Sento Joey di tanto in tanto, mentre Jesse è di nuovo sparita della circolazione. Fa così quando sta male. Vive in una dimora elegante di Brooklyn, e so che continua a frequentare la casa dei suoi genitori, gente benestante. Purtroppo, so anche che non sta bene. Infine, ci sono Rachel e Dionn, gli unici rispetto ai quali nutro un filo di speranza. La nascita del loro figlio li ha molto cambiati, anche se continuano a vivere in una povertà estrema.

Vita: Non temi che questo lavoro possa diventare un marchio di fabbrica?
Dimmock: Per un po? ho avuto paura di essere catalogata come la fotografa dei tossicodipendenti. Ma sono stata nuovamente fortunata. Il mio prossimo progetto sarà dedicato al lavoro minorile in Costa d?Avorio. Poi vorrei entrare nella vita di un giro di persone miliardarie, coglierne tutte le sfaccettature e osservarli nella loro intimità.


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